Nei trasporti, dove e quando è arrivata, la concorrenza ha giovato alla crescita di nuove imprese, agli utenti, e ai contribuenti. Si pensi all’avvento delle compagnie aeree low-cost (crescita esplosiva del settore grazie a cali medi? del 30% di tutte le tariffe, e aumento della sicurezza), al commercio marittimo, alla produzione dei veicoli (e oggi alla gara tra produttori per renderli più sicuri e meno inquinanti, con risultati già clamorosi, e costi tutti a carico dei privati), ai servizi ferroviari di Alta Velocità in Italia e a quelli regionali in Germania e Inghilterra.

Ma a due potenti soggetti la concorrenza non ha fatto bene: agli addetti e ai proprietari delle aziende in monopolio, che ovviamente ne hanno sofferto. Questi soggetti tuttavia sono da sempre vicini al potere politico, a volte perché vi coincidono (imprese pubbliche), e sempre perché gli addetti votano, e votano anche gli addetti dei fornitori. E votano compatti: sanno bene chi li può beneficiare o non danneggiare. Utenti e contribuenti al contrario non sanno nulla dei benefici potenziali che possono ricevere, e le nuove imprese o non esistono ancora o sono lontane dal potere politico, e spesso sono straniere.

Tanto sono potenti gli interessi alla conservazione, che hanno sviluppato ideologie (o pseudo-ideologie) specifiche: si va da risibili denunce di “dominante neoliberismo” (in paesi, come il nostro, dove lo Stato gestisce il 45% del PIL), a più insidiosi fenomeni di “cattura del decisore”, con pseudo motivazioni sociali o ambientali, formulate senza alcun supporto scientifico ma con precisi obiettivi di conservazione di generosi trasferimenti pubblici o tutele normative. Infine, ancora più potenti sono risultate le argomentazioni “sovraniste”: la concorrenza può mettere a rischio imprese nazionali a favore di altri paesi. Protezionismo a volte esplicito e senza sfumature: “prima gli italiani”.

Purtroppo, l’attuale dominanza elettorale di partiti sovranisti o comunque con forti connotazioni anti-mercato sembra aver reso vincente questa narrazione, e non solo in Italia.

Vediamo ora, a conferma di quanto sopra, una rapida rassegna di situazioni dove la concorrenza si trova in grande difficoltà.

L’interminabile vicenda Alitalia descrive da sé la forza politica di chi non vuole far agire il mercato: quella impresa è mantenuta in vita solo da continue e sempre meno giustificabili erogazioni di denaro pubblico. Tra le soluzioni in vista, una è gravida di protezionismo, visto che uno dei soci potenziali (Atlantia) detiene il maggior hub italiano (Fiumicino), con rilevanti impliciti conflitti di interesse anticoncorrenziali.

Nel settore ferroviario, dopo l’avvento di Italo nell’Alta Velocità tutto si è fermato: ora, questo si spiega solo o con un altissimo e insuperabile livello di efficienza dell’Incumbent Trenitalia, o con altrettanto alte e insuperabili barriere all’ingresso di nuovi attori. Al lettore la scelta.

Nel traporto pubblico locale nulla si muove, le maggiori città e regioni sono solidamente in mano agli incumbent pubblici, e in molti casi l’avversione alle gare è addirittura dichiarata esplicitamente, forse per ragioni affettive… Altre volte le norme vengono aggirate con cavilli che una normativa “benevole” evidentemente consente.

Per il settore autostradale, il soggetto dominante, Autostrade per l’Italia (AspI), molto minacciato dopo il crollo del ponte Morandi, dominante rimane, pur essendo ampiamente stata dimostrata da una analisi dell’Autorità di Regolazione (ART) l’inconsistenza di qualsiasi giustificazione economica che legittimi tale dominanza (economia di scala che si esauriscono per dimensioni di rete di alcune centinaia di km).

Questo rende automaticamente inefficiente l’assetto dimensionale attuale del

settore, massimizzandone i rischi di eccessivo “clout” politico, senza contropartite per il pubblico interesse. Anche di gare non se ne è vista traccia, né di vincoli ad estensioni della dominanza di AspI.

Né si hanno tracce di pressioni concorrenziali di sorta nelle gestioni aeroportuali, anche queste solidamente in mano agli incumbents, almeno per quanto concerne quelli più redditizi.

Un velo di silenzio infine sulle scelte industriali dei due governi che hanno preceduto l’attuale, di diminuire invece che di aumentare la contendibilità del settore, prima con la fusione tra ANAS e ferrovie (che già gestiscono in solido servizi e infrastrutture, con evidente conflitto di interesse), poi con l’aggiunta una consistente quota di Alitalia. Ogni logica industriale qui davvero sembra latitare.

Ora, non si può dimenticare che nemmeno vi fossero aperture normative a maggiori livelli di concorrenza, queste sarebbero in sé sufficienti: entrare in nuovi mercati è di per sé rischioso e oneroso a causa di “asimmetrie informative”. Se inoltre viene percepito un messaggio politico ostile alla concorrenza, questo configura quello che in letteratura è noto come “rischio regolatorio”, che in pratica si rivela paralizzante: i rischi totali diventano troppi.

Che fare in tale contesto? Esiste una azione assai lineare e realistica: ricordando la tradizione statunitense sulla regolazione dei monopoli, naturali e non, occorre affidare ad ART un esplicito potere di unbundling, cioè di separare quelle realtà industriali per le quali non siano riscontabili economie di scala o di scopo che ne giustifichino le dimensioni, ma anche quelle per le quali non sia evidente che i benefici di tali economie, se esistenti, vengano traslati alla collettività, attraverso minori costi per gli utenti e/o minori trasferimenti pubblici.

Marco Ponti

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