Benetton: dal profitto alla rendita grazie allo
Stato
Le fortune della famiglia Benetton nascono dalle magliette, e sono fortune di
scala mondiale. Si parte con un modello industriale molto innovativo ma anche
molto antico: il telaio a domicilio, che consente di mantenere costi bassissimi
utilizzando il lavoro saltuario di chi sta a casa, e si accontenta di poco non
avendo alternative, o preferisce dedicare parte del tempo alla casa. Alcuni han
parlato di sfruttamento, come nel caso dei tassisti part-time di UBER-POP, ma
bisogna andarci molto piano: formalizzare lavori saltuari in un contesto di
diffusa sottooccupazione significa spesso renderli troppo costosi, e alla fine
difendere categorie protette con molta “voce” e rappresentanza: chi mai ha
sentito il parere di chi quei lavori saltuari e non protetti li ha persi? Il modello è molto antico, perché la prima industrializzazione inglese è partita proprio dalla maggiore produttività dei telai industriali, che hanno messo fuori mercato quelli domestici: qui la tecnologia ha prodotto l’effetto contrario.
E quelle fortune sono state poi spese bene, investendo con intelligenza in
design di qualità a prezzi bassi, e conquistandosi un mercato a scala mondiale,
in un contesto fortemente competitivo. Si costruivano anche vicinanze politiche, come è ovvio, e queste erano con il PDS, antenato dell’attuale PD.
Nel frattempo l’ingresso in Europa comportava la privatizzazione di parti
consistenti del colosso pubblico IRI, da sempre gestito pubblicamente. Qui fu
fatta una scelta politica fatale, per pura avidità di gettito fiscale: si decise di
affidare in concessione le autostrade facenti capo all’IRI, cioè la maggior parte
e la più redditizia della rete. Nessuna difesa era prevista per gli utenti, che
quella rete l’avevano già in buona parte pagata. La gallina doveva continuare
comunque a far uova d’oro, tanto gli utenti mica facevano i conti, quello era un
monopolio senza reali alternative. Avrebbero continuata a pagare senza fiatare. I Benetton erano amici, bravi imprenditori, e senza alcuna vera gara risultarono affidatari della rete. Lo Stato avrebbe fatto a metà dei profitti con la tassazione ordinaria, e inoltre c’era una piccola quota in più come diritti di concessione. Ovvio che, spartendosi il bottino, non c’era per lo Stato alcun incentivo a ridurlo con una regolazione tariffaria severa, anzi, proprio il contrario (erano riconosciuti al concessionario tassi di interesse da fantascienza e senza rischi reali, superiori al 10%, e per lunghissimi anni, poi ancora recentemente prolungati dal ministro PD Delrio, con un ulteriore regalo implicito che alcuni maligni stimano in diversi miliardi). E la gallina ha fatto davvero una montagna di uova d’oro per i due partner interessati. Un fiume di rendite, molto più comode e sicure dei faticosi profitti delle magliette. E anche cambiando il colore dei governi, quella amicizia era basata su basi troppo solide per incrinarsi. Gli utenti pagavano più volte quello già pagato, ma non protestavano. Chi scrive lavorava sui pedaggi al ministero del Tesoro (al NARS per l’esattezza), e provò a limare un po’ quel monte di uova. Mal glie ne incolse: prima fu cacciato, poi Autostrade per una frase un po’ acida detta in TV gli fece una causa milionaria per danni, causa “di avvertimento”, cioè, come è prassi in questi casi, ritirata il giorno prima del dibattimento. La tragedia del ponte Morandi (con altre vicende) sembra dimostrare un clima assai disinvolto anche per quanto riguarda la sicurezza dei sempre ignari utenti, ma aspettiamo i giudici. Certo rimane l’assurdo di uno Stato che induce degli imprenditori a distogliere risorse dai profitti per spostarle su rendite, dimenticandosi totalmente il suo dovere di tutelare l’interesse pubblico. Un danno duraturo e irreversibile: le rendite distruggono il benessere collettivo (si veda la teoria del surplus sociale, su cui qui non ci dilunghiamo). Il profitto, o meglio la ricerca del profitto in un contesto concorrenziale, il benessere collettivo aiuta a crearlo.
E a proposito di rendite, bisogna qui ricordare che gli attuali e crescenti squilibri di ricchezza denunciati dal famoso libro di Piketty sono storicamente creati assai più da rendite che da profitti. Ma le rendite di ogni tipo in questo paese godono di una immagine pubblica assai più favorevole dei profitti, che invece configurano nel nostro immaginario schiere di avidi capitalisti sfruttatori, che fanno anche fallire i concorrenti. Le rendite invece sono così più serene, silenziose, tranquille… Si è parlato di pubblicizzare Autostrade per l’Italia, ma certo sarebbe un errore creare nuovi carrozzoni pubblici, magari persino più avidi e inefficienti dei privati. Quello che s’ha da fare è eliminare gradatamente tutte le concessioni autostradali (gli utenti hanno già strapagato tutto), mettere in gara periodica la manutenzione dell’esistente, e separatamente eventuali nuove costruzioni, finanziando il tutto in modo efficiente con una quota delle accise sui carburanti e con i proventi di “tariffe di congestione” per migliorare l’utilizzo della rete esistente, giovando anche all’ambiente. Ma su questo discorso (questo “vasto programma”, direbbe De Gaulle), forse val la pena di tornare.
Marco Ponti

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