Il quarto convegno di Conftrasporto (la sezione di Confindustria del settore) svoltosi a Villa d’Este l’8 e il 9 scorsi, e organizzato da Ambrosetti, ha visto la massiccia presenza di operatori e manager di imprese di trasporto pubbliche e private, ma anche di studiosi e autorità politiche di livello europeo, nazionale e locale.

Tra i moltissimi temi dibattuti, lo scrivente era relatore, insieme ad altri, sulle politiche infrastrutturali.

Il dibattito, molto acceso, su questo tema ha visto due schieramenti opposti, sia a livello politico che teorico: quello politico vedeva i sostenitori della (peculiare) tesi “Ci sono soldi pubblici per fare tutto, grandi opere soprattutto, che servono moltissimo per la crescita, e quindi non occorre valutare nulla”. I rappresentanti del primo schieramento erano il presidente dell’ANAS prof. Cascetta, il vicepresidente Tajani, ed i governatori di Lazio e Liguria Zingaretti e Toti. In sintesi, l’opposizione politica al governo. Curioso che tra i sostenitori di questa tesi si collocasse anche la commissaria europea ai trasporti Violeta Bulc, che ha promesso fiumi di soldi a tutti, ed in particolare all’Italia…ma la spiegazione è semplice: come tutti i commissari uscenti è in campagna elettorale, e in questi casi promettere molti soldi (altrui) è uno strumento irrinunciabile ovunque.

Gli oppositori erano lo scrivente, e il presidente di ART Camanzi, che timidamente sostenevano che i soldi sono scarsissimi, vanno spesi perciò con gran cura e con adeguate valutazioni, e che puntare sulle tecnologie invece che sul cemento è una strategia probabilmente più efficace e meno costosa.

Sul piano teorico, il quadro emerso è ancora più desolante: i pochi economisti presenti (nessuno competente del settore tranne lo scrivente) hanno recitato il mantra del moltiplicatore degli investimenti più alto di quello dei consumi, contro l’attuale DEF, che invece sui consumi punta tutto. Il problema è che in senso generale la loro posizione è del tutto corretta, perché assumono ovviamente che questi investimenti siano stati selezionati con cura, con adeguate analisi costi-benefici ecc., come si usa nei paesi sviluppati e attenti alla spesa.

Non è certo però questo il caso italiano: vi è un interminabile elenco di “opere prioritarie” per 132 miliardi di Euro, lasciateci dal precedente governo, di cui nemmeno una è stata valutata, non diciamo con analisi costi-benefici, che sono complesse e a volta opinabili, ma nemmeno con banali analisi finanziarie o di traffico.  Questi elenchi nel contesto internazionale hanno un nome preciso per distinguerli da seri piani di investimento: sono noti come “shopping lists”.

Marco Ponti

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