Il presidente francese Macron è detestato dal ministro Salvini, e abbastanza anche dai francesi (in particolare dai potentissimi ferrovieri, cui ha cercato di ridurre una serie di assurdi privilegi),  e dai costruttori (ha bloccato quasi tutte le Grandi Opere d’oltralpe, e su questo tema neanche là scherzano), e non è neanche molto amato dal Fatto quotidiano: infatti è un europeista liberale. E non si può dimenticare il nesso tra Europa e liberismo: l’Unione è nata soprattutto per liberalizzare i mercati del continente, avvicinandone le dimensioni a quello statunitense e cinese. Noi pochi anni fa eravamo alla Padania, come visione politico-economica.

E ed è un fatto quasi tecnico che Macron (a parte alcune stupidaggini di ordinaria amministrazione) e con lui il liberalismo non possa essere popolare: genera grandi mali per pochi subito (imprese e soprattutto lavoratori che perdono la gara per l’innovazione e la concorrenza), mentre genera grandi beni per molti nel medio periodo. La crescita del benessere, della salute, e dell’istruzione negli ultimi duecento anni non può lasciare molti dubbi, se non ideologici (perfino Marx sarebbe d’accordo, che aveva “l piedi ben piantati nella produzione”).

Il problema politico del consenso è che i danneggiati sono giustamente molto vocali: i ferrovieri in Francia hanno piantato mesi di scioperi a singhiozzo che hanno provocato danni enormi soprattutto ai pendolari. La loro causa era totalmente indifendibile, ma in molti altri casi davvero il mercato può essere una medicina amara (provare per credere a perdere il lavoro per capacità tecniche obsolete e vivere di magri sussidi…). Invece i molti beneficiati nemmeno lo potranno sapere, quindi sono silenziosi sia subito che dopo (non possono fare confronti intertemporali con ipotesi controfattuali tipo “come sarebbero oggi le bollette telefoniche senza la liberalizzazione”… questa casistica sarebbe infinita). Poi votano in conseguenza, potendo registrare solo le voci dei danneggiati nel breve periodo. Anche i politici son attentissimi a questi fenomeni, com’è ovvio. E molti giornalisti: solo le cattive notizie sono notizie è uno slogan abbastanza universale nei media.

Infine c’è la spiritosa leggenda del neoliberismo dominante in Italia: come si può ragionevolmente sostenere una tesi simile, con quasi il 50% delle risorse nazionali che transita nelle mani dello Stato, che per di più ne spreca un bel pò? In più siamo in presenza di un trend storico solidissimo: al momento dell’unità nazionale la spesa pubblica era, credo, intorno al 20%. E la vicenda tragica del protezionismo di Trump sembra dimostrare che anche nella patria del liberismo ci sono problemi di consenso politico, le cui conseguenze saranno lì da vedere, soprattutto nel medio-lungo periodo.

Il libero mercato è antinazionalista: il capitale deve muoversi senza lacci e lacciuoli dove il lavoro e le risorse costano meno, per “sfruttarle” meglio. Anche la Cina sta esportando imprese nei paesi africani e del sud-est asiatico, dove il lavoro costa meno. Ma certo questo dispiacerà molto ai contadini di quei paesi, strappati alla idilliaca vita naturale della campagna da prospettive di una vita migliore, per loro di poco, ma molto per i loro figli, in termini di maggiore istruzione e salute. Il capitalismo certo non è una festa da ballo, per capovolgere un famoso detto del presidente Mao, che si riferiva alla rivoluzione socialista. Il primo ha storicamente vinto, ma notoriamente ha bisogno anche di consumatori, e tanti, non solo di lavoro a basso costo (altrimenti non comprano abbastanza). Nella super sciovinista Francia per la festa della sua elezione il liberale Macron ha fatto suonare l’inno europeo  beethoveniano, non la marsigliese.

Probabilmente lui perderà le prossime elezioni, dato il calo di popolarità in corso, con gran gioia di Trump e Putin, e, più modestamente, del nostro Salvini.

Marco Ponti

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