La tragica vicenda di Genova forse può indurre ad una riflessione complessiva sulla gestione delle infrastrutture, in particolare quelle di trasporto. Notoriamente si tratta di “monopoli naturali”, che non avendo pressioni dal mercato, devono essere regolate da autorità indipendenti, siano le infrastrutture gestite da soggetti pubblici che privati. Perchè non direttamente dal ministero competente? Perchè storicamente i regolatori politici, cioè i ministeri, come regolatori tendono ad essere troppo “generosi”, per ragioni di consenso o peggio, verso le imprese regolate. E queste, se sono pubbliche, tendono nel tempo a diventare inefficienti, generando alti costi di gestione (far profitti non gli interessa), e se sono private, a far profitti con tariffe troppo elevate o non garantendo sufficiente qualità e sicurezza a quello che gestiscono (spendere poco è un mezzo essenziale per fare profitti).
Il regolatore indipendente per i trasporti (ART) esiste da relativamente poco, e si è trovato non solo con poteri limitati, ma soprattutto con contratti-capestro firmati in precedenza e molto generosi (concessioni lunghissime e “blindate” per ferrovie ed autostrade, e per queste ultime anche “segretate” grazie ad un assurdo cavillo giuridico, probabilmente non innocente).
Per regolare un monopolio naturale si possono fare due cose principali (qui non entriamo ovviamente in dettagli accademici). La prima è sostanzialmente quella scelta dai governi italiani: regolare direttamente i gestori pubblici e privati con dei meccanismi che tendano a farli diventare più efficienti e a non danneggiare utenti e contribuenti. Non sembra aver funzionato affatto bene. La seconda è di fare gare periodiche per le gestioni (per intenderci, da 5 a 10 anni, ma non di più, in modo che il gestore abbia ben chiaro che sarà presto esposto alla concorrenza di altre imprese). Anche l’antitrust ha invano negli anni scorsi auspicato soluzioni di questo genere. Le obiezioni politiche e dei concessionari hanno sempre riguardato gli investimenti: se un concessionario ne fa con i suoi soldi, deve poterli recuperare integralmente con le tariffe, cioè avere concessioni lunghissime. Ma anche l’antitrust osservò che bastava fare buone regole di subentro in cui il nuovo arrivato pagava al gestore uscente la quota non ancora ammortizzata, per poter fare affidamenti in gara per periodi relativamente brevi.
Vediamo ora più da vicino il caso specifico delle concessioni autostradali. Da un punto di vista funzionale, il sistema stradale è un disastro. Ci sono strade statali con caratteristiche simili non a pedaggio. La viabilità locale ha un regime ancora diverso, e serve la maggior parte del traffico, al punto che persino sulle autostrade a pedaggio il traffico di breve distanza oggi prevale nettamente su quello di lunga distanza (quando furono costruite le autostrade maggiori ovviamente non era così). La viabilità locale inoltre mediamente è in pessimo stato di manutenzione, peggio di quella autostradale. Poi da un punto di vista dei vantaggi possibili di una gestione in concessione, il sistema stradale non è certo tra i primi a goderne: le strade hanno una tecnologia relativamente semplice in relazione ad altre infrastrutture di trasporto (sono nastri di asfalto), e quindi il potenziale know-how costruttivo e gestionale che lunghi affidamenti a privati potrebbero apportare appare limitato, e comunque certo non per particolari segmenti della rete.
Appare allora ragionevole omogeneizzare il sistema dal punto di vista gestionale e di programmazione degli interventi, per orientarli non in funzione dei pedaggi ma delle esigenze del traffico.
In uno scenario tendenziale di maggior razionalità allora sarebbe opportuno superare radicalmente il sistema delle concessioni eterne e mai seriamente messe in gara, e sostituirlo con gare periodiche brevi per la manutenzione (certo però a più manutentori, in modo da controllarli meglio), lasciando per tutta la rete gli investimenti necessari alla normale pratica di appalti europei in gara.
Vediamo ora, sempre molto in sintesi, il problema del finanziamento del sistema. In primo luogo occorre ricordare che il modo stradale nel complesso, principalmente con le accise sui carburanti, rende alle casse dello stato circa 40 miliardi all’anno, al netto delle spese. Per la manutenzione della rete, basterebbe destinare una quota di questi ricavi al settore stradale, eventualmente mantenendo alcuni pedaggi là dove vi siano fenomeni di congestione importanti (il sistema si chiama “road pricing”, e per intenderci, è quello usato per diminuire la congestione in molte città europee, Milano inclusa).
Cioè si potrebbe razionalizzare anche l’intero sistema dei pedaggi, eliminandone molti (con i relativi costi di esazione e perdite di tempo), soprattutto là dove gli utenti hanno già pagato per gli ammortamenti (persino più volte, grazie alla generosità dell’attuale sistema concessorio…).
E per gli investimenti? Sembrerebbe logico omogeneizzare anche questo aspetto per tutti i modi di trasporto: gli investimenti infrastrutturali siano a carico dello Stato, non degli utenti, come nel caso delle ferrovie (sui vantaggi di efficienza di questo approccio, qui di nuovo non ci si può dilungare).
E se lo Stato non ce la fa per problemi di bilancio? Innanzitutto di grandi investimenti c’è molto meno bisogno di quanto si voglia far credere (l’economia non cresce nè crescerà certo a ritmi vorticosi, e la popolazione è in calo, soprattutto nel Mezzogiorno. In secondo luogo, può decidere di farne pagare una parte agli utenti con il pedaggio, ma in modo equo: paghino di più gli utenti che li useranno, non l’intera collettività.
Marco Ponti