L’accentramento fiscale, cioè sia delle principali voci di spesa che di prelievo,
ha indubbi e gravissimi problemi sul piano degli incentivi reali,
dell’informazione, e del controllo democratico, cioè dell’
accountability dei decisori politici. Non solo: tende a creare gravi ingiustizie distributive sue proprie. Vediamo in sintesi i maggiori problemi:
Gli incentivi reali: se le risorse provengono principalmente da Roma, cioè dalla
fiscalità generale, gli incentivi vengono gravemente distorti. Infatti l’obiettivo
dei politici locali, è garantire il massimo benessere ai propri elettori, passati e
soprattutto futuri. Ovviamente tale obiettivo diventa allora quello di
massimizzare i trasferimenti dal centro, a qualsiasi titolo e per qualsiasi
destinazione. Il prelievo locale diventa invece da minimizzare, perché riduce il
consenso. Le tariffe saranno ridotte al minimo, ma non così i costi dei progetti,
se c’è una ragionevole certezza che le risorse per quel progetto arriveranno. Ed
è ben noto che le amministrazioni centrali hanno ridottissime capacità (e
volontà) di analizzare e valutare una miriade di progetti locali per evitare
sprechi. L’assegnazione di risorse ha matrice strettamente politica, e molto
spesso partitica. Si fa una metropolitana in un grande comune “amico”, perché
del consenso partitico ne godrà anche il centro. E le tariffe saranno le più basse d’Europa (e infatti è così). A nessuno viene in mente di verificare se ci sia una soluzione meno costosa a quel problema di mobilità.
L’informazione: è ovvio che sia quasi per intero posseduta a livello locale. Sia
sui bisogni reali, che sulle soluzioni possibili, come abbiamo visto nell’esempio
della metropolitana. Se a livello centrale anche solo si tentasse di raccogliere
informazioni per verificare l’efficienza o i reali contenuti sociali di progetti di
spesa elaborati localmente, si incontrerebbero ovviamente solidi muri a
un’operazione potenzialmente lesiva degli interessi locali. Chi scrive, a suo
tempo propose all’amministrazione centrale criteri di “competizione” tra
progetti locali diversi (il modello è noto come “tournement”), ma il tutto si
risolse in poche parole di raccomandazione a proporre progetti efficienti, ed
immediatamente si tornò all’allocazione politico-partitica delle risorse.
Il controllo democratico e l’accountability dei decisori locali: se un progetto di
spesa o un modello di gestione risultano del tutto inefficienti, è semplicissimo
accusare l’amministrazione centrale di non averne assegnati abbastanza, se
quella è la fonte principale delle risorse. Celebre il caso dell’autonomia fiscale
richiesta e ottenuta, soprattutto dalla Lega, per i trasporti locali alla fine del
secolo scorso: quando gli enti locali verificarono che gestire la conflittualità
(molto elevata) nel settore toglieva loro consenso, rinunciarono rimettendo
tutto a Roma. Molto più semplice dire agli addetti in sciopero (e ai pendolari
arrabbiati) che non arrivavano abbastanza soldi da Roma, piuttosto che
prendersi la responsabilità di dichiarare di non voler superare certe soglie di
spesa. Poi c’è da considerare, seguendo le indicazioni di Tito Boeri, il problema di efficienza e di equità di avere salari uguali in situazioni con un costo della vita molto diverso (si stima come ordine di grandezza che al Sud sia del 30%
inferiore). Non solo i dipendenti pubblici manifestano più che legittime
resistenze a lavorare al Nord a parità di salario, ma le imprese riscontrano costi
del lavoro troppo alti al Sud, visto che anche la produttività media al Sud è
sensibilmente inferiore. Questo danneggia fortemente lo sviluppo dell’intero
Paese, non solo del Sud, richiedendo meccanismi artificiali di compensazione
pubblica, spesso scarsamente efficienti ed efficaci.
Di questa distorsione sistematica degli obiettivi si ha avuto una verifica da tre
realtà locali recenti. Una è il debito di Roma, 13 miliardi, certo pregresso, cioè
non colpa dell’attuale sindaco. E tutti concordano che questo debito enorme
debba essere, in un modo o nell’altro, pagato dalla fiscalità generale (c’è un
cenno anche nel programma del nuovo governo). Ma nessuno osserva che, a
parte le ruberie, la gran parte del debito è frutto di spese di cui ha goduto la
città (anche basse tariffe, per esempio), che superavano le entrate. Una
condizione di autonomia fiscale non avrebbe probabilmente consentito un esito così iniquo. Due episodi poi riguardano nuove metropolitane di Milano e Torino (costi ben oltre il miliardo miliardi, a carico dei contribuenti italiani). Ottimo, per i milanesi e i torinesi. Ma nel caso di Torino nessuna analisi costi-benefici è stata politicamente richiesta (al contrario che per il tunnel del Frejus, unico nome corretto per quell’opera). Per la linea 5 milanese i risultati sono talmente marginali, che mai avrebbe retto al confronto con soluzioni meno costose. Ma meglio non prenderle in considerazione, e far venire inutili dubbi. Tanto i soldi vengono da Roma…
Ovviamente l’autonomia fiscale deve avere forti limiti negli standard di servizi
di base per i cittadini, e deve essere preceduta da una ridistribuzione ex-ante
delle risorse per tener pienamente conto delle disparità di capacità contributive locali.
Ma questo deve essere un trasferimento “in solido”: a valle, i cittadini devono
poter verificare come sono spesi i soldi pubblici, e sapere che pagheranno di
più per soluzioni inutilmente costose, senza più alibi romani. Poi giudicheranno
con il voto, che sarà un voto più responsabile e informato.
Marco Ponti