28 aprile 2022
di Francesco Ramella
Nel breve periodo la riduzione delle emissioni di gas serra del trasporto stradale spostando una parte della domanda sulla ferrovia e sui trasporti pubblici ha un costo molto più elevato che in altri settori. Nel lungo periodo questa politica diventerà via via più inefficiente e inefficace.
Ridurre le emissioni a costo zero
È stato pubblicato negli scorsi giorni il terzo volume del sesto rapporto di valutazione dell’IPCC, il Gruppo intergovernativo dell’ONU che dal 1988 si occupa del cambiamento climatico.
Una figura contenuta nel Summary for policymakers sintetizza quali sono i potenziali risultati di riduzione delle emissioni entro il 2030 e i relativi costi che sono indicati pari a zero per una quota rilevante del totale. Precisa l’IPCC che i costi cui si fa riferimento sono solo quelli monetari estesi a tutta la vita tecnica dell’impianto impianto/veicolo e attualizzati.
Per questa parte di emissioni non sono necessarie politiche pubbliche di incentivazione: sarà direttamente il mercato come, ad esempio, è già accaduto negli Stati Uniti con il gas che ha soppiantato il carbone, ad agire laddove una soluzione a più basse emissioni è anche più conveniente sotto il profilo economico.
Il “cambio modale” nei trasporti è inefficiente nel breve termine.
Tra le politiche a costo zero viene indicato anche lo spostamento di una parte della mobilità in auto al trasporto collettivo, meno inquinante e, tranne i casi – non rarissimi, in verità – nei quali il coefficiente di occupazione di autobus e treni è molto basso, con costi operativi molto al di sotto di quelli del mezzo individuale. La semplice valutazione monetaria, a differenza di altri ambiti nei quali il prodotto, ad esempio l’energia elettrica prodotta da carbone o da nucleare è identico, rischia però in questo caso di essere fuorviante come reso evidente dal fatto stesso che, nonostante il trasporto pubblico costi meno, la quota largamente maggioritaria – intorno all’80% – della domanda di trasporto viene oggi soddisfatta nei Paesi europei dall’auto che è sì più cara, ma che garantisce maggior velocità di spostamento e comodità. Nella scelta del mezzo di trasporto il valore monetario del tempo è fattore assai più rilevante del prezzo.
Qual è, allora, il vero costo economico della riduzione della CO2 con politiche di cambio modale? In Italia il costo per passeggero-km del trasporto pubblico urbano è pari a circa 30 centesimi di cui dieci centesimi coperti con la vendita di biglietti e abbonamenti e venti centesimi con sussidio pubblico. Ipotizziamo di accrescere l’offerta con costo marginale pari al costo medio di produzione dei servizi esistenti (non vi è evidenza di economie di scala conseguibili nell’attuale assetto) e assumiamo che il coefficiente di occupazione dei nuovi servizi sia pari a quello medio e che la metà dei nuovi utenti in precedenza utilizzasse l’auto (i restanti si muovevano a piedi, in bici, si servivano di un servizio esistente più scomodo o non effettuavano quello spostamento).
Il maggiore sussidio per passeggero-km che passa dall’auto al trasporto collettivo risulterebbe in queste condizioni pari a quaranta centesimi. Assumendo che il trasporto collettivo sia a emissioni zero, la quantità di CO2 non emessa risulta pari a circa 200 grammi.
Il sussidio per tonnellata di CO2 evitata risulta quindi di 2000 €. Ad esso si somma la perdita di accisa che è intorno ai 300 € per tonnellata (e nel caso in cui chi sceglie l’autobus sceglie di rinunciare al possesso dell’auto anche delle entrate ad esso correlate che sono grosso modo di pari importo).
Tale valore è di un ordine di grandezza superiore a quello delle misure riepilogate nel Summary for policymakers.
Ancora maggiore può essere il costo unitario di abbattimento nel caso di realizzazione di nuove infrastrutture ferroviarie. In questo caso – come per nuove metropolitane – occorre tenere in considerazione anche le emissioni generate nella fase di costruzione. In base a una stima di chi scrive, relativa al primo lotto della nuova linea AV Salerno – Reggio Calabria (127 km di cui ben 52 in galleria), la quantità di CO2 di cantiere assomma a 1,3 milioni di tonnellate a fronte di una riduzione ottenuta nei primi 30 anni di esercizio pari a 1,58 milioni con un bilancio netto positivo di 272mila tonnellate (Figura 1). L’investimento previsto è di 7,7 miliardi equivalenti a 28mila € per tonnellata di CO2 risparmiata (per la valutazione complessiva della redditività dell’investimento occorre tenere conto degli altri benefici ambientali e di trasporto).
Nel lungo termine l’inefficienza aumenta e l’efficacia si riduce fino ad annullarsi.
Se nel breve termine vi sono opzioni molto meno costose di abbattimento rispetto al cambio modale, nel lungo periodo questa politica diverrà via via più costosa e irrilevante, come già accaduto per gli inquinanti locali negli scorsi decenni, a seguito della progressiva riduzione delle emissioni unitarie dei veicoli stradali. Al riguardo, si segnala un’analisi del britannico Committee on Climate Change nella quale vengono analizzati i prevedibili impatti della innovazione tecnologica, delle politiche di riduzione della domanda e dell’adozione di uno stile di guida più parsimonioso. Sono proposte due simulazioni: la prima (“behaviour first”) considera a monte gli effetti comportamentali e a valle quelli tecnologici, la seconda (“as impacts occur”) tiene conto anno per anno della riduzione delle emissioni unitarie. Sia nel primo (Figura 2) sia nel secondo approccio (Figura 3) la componente più rilevante per l’abbattimento della CO2 è quella della innovazione tecnologica ma, mentre nel primo caso (Figura 4) il fattore comportamentale ha un effetto crescente nel tempo, nel secondo esso ha un effetto massimo nella seconda metà di questo decennio per poi scendere progressivamente a zero (Figura 5).
Nel 2050, quando si assume raggiunto l’obiettivo di azzeramento delle emissioni complessive e, dunque, di quelle unitarie, il beneficio della riduzione di domanda è nullo e il costo per tonnellata di CO2 abbattuta tende ad infinito.