3 maggio 2022
di Francesco Ramella
Nello scorso mese di febbraio la Camera ha approvato, quasi alla unanimità, due modifiche agli articoli 9 e 41 della Carta costituzionale. Alla tutela del paesaggio, del patrimonio storico e artistico si affianca quella dell’ambiente e della biodiversità anche nell’interesse delle future generazioni. E la libertà della iniziativa economica privata viene vincolata al non recare danno alla salute, all’ambiente e alla sicurezza.
Preso alla lettera, il nuovo dettato renderebbe anticostituzionali tutte le attività economiche. Non ve n’è alcuna, infatti, che non arrechi un qualche danno all’ambiente, alla salute o alla sicurezza. Qualunque processo produttivo ha un più o meno rilevante impatto negativo sull’ambiente. Lo hanno le auto e le strade e lo hanno in misura molto più ridotta, le ferrovie. Inquinano, forse questo lo sappiamo meno, le metropolitane: la qualità dell’aria al loro interno è pessima con una concentrazione di polveri sottili che è fino a dieci volte maggiore di quella dell’atmosfera esterna.
Inquina la produzione di cemento e acciaio per le pale degli impianti eolici e l’estrazione dei metalli rari per i pannelli fotovoltaici. E, come reso evidente dal dibattito di questi mesi, le rinnovabili hanno un impatto negativo sul paesaggio.
Ma sono rilevanti fonti di inquinamento anche l’agricoltura e la combustione della legna.
L’impatto zero non esiste. E azzerare l’impatto ambientale può essere controproducente. Vediamo perché. Se, ad esempio, volessimo minimizzare l’impatto delle attività umane sul clima la soluzione ideale sarebbe quella di fermare da subito e in tutto il mondo qualsiasi attività che produca gas serra. Se messa in pratica, tale politica avrebbe conseguenze chiaramente disastrose per la vita di tutti noi. Nel 2020, a causa dei lockdown introdotti per contrastare la diffusione del Covid, vi fu una parziale riduzione delle attività economiche e della mobilità che consentirono di ridurre le emissioni di CO2 come mai successo in precedenza. Ma, allo stesso tempo, dopo decenni di trend positivo, quei provvedimenti fecero crescere di oltre cento milioni il numero di persone che nel mondo vivono in condizioni di povertà assoluta.
Un po’ di inquinamento è, dunque, meglio tenercelo. Ma quanto? Abitualmente la definizione dei limiti accettabili è il risultato di una procedura che parte dalla individuazione dei livelli che non comportano alcun impatto, seguita da una mediazione politica che porta a individuare un obiettivo più o meno realistico. Non necessariamente questo è però quello ottimale.
Il criterio razionale da seguire dovrebbe essere il seguente: ha senso ridurre un dato impatto ambientale fino a quando il costo da sopportare è inferiore al beneficio atteso. Un ambiente più pulito è un bene ma non ogni azione che comporta una riduzione dell’effetto negativo delle attività umane è auspicabile.
Che esista un bilanciamento tra obiettivi tra loro in contrasto è dimostrato anche dalle scelte di ciascuno di noi: nessuno, o davvero pochissimi, scelgo di vivere là dove le condizioni ambientali sono le migliori in assoluto. Il farlo comporterebbe infatti una perdita di opportunità economiche e umane, riflettendosi negativamente sulla nostra aspettativa di vita.
Un vecchio cartoon riassume efficacemente il tema: sono raffigurati due cavernicoli e uno dice all’altro: c’è qualcosa che non funziona; la nostra aria è pulita, l’acqua pura, mangiamo solo cibi biologici eppure la nostra speranza di vita non supera i trent’anni.
E nel suo rapporto sullo stato di salute dell’Italia l’OECD evidenzia come nel Nord Italia, una delle aree che presenta il più elevato livello di inquinamento atmosferico in Europa (ma di gran lunga inferiore a mezzo secolo fa), “le persone vivono tre anni più a lungo rispetto a coloro che risiedono nelle regioni più povere del Sud”.
Quanto detto con riferimento specifico all’ambiente vale, più in generale, per la riduzione dei rischi. Impegnare molte risorse per conseguire la riduzione di un rischio specifico può essere controproducente. Queste risorse sono infatti sottratte ad altri impieghi che avrebbero a loro volta determinato un aumento della aspettativa di vita. Un esempio: se introduciamo un vincolo più stringente alle emissioni delle auto nuove il prezzo aumenterà e qualcuno tra i potenziali compratori rinuncerà o, quanto meno, posticiperà l’acquisto continuando per qualche tempo a guidare un veicolo non solo più inquinante ma anche più insicuro. Un altro esempio di eccesso di zelo nel settore dei trasporti è rappresentato dalla imposizione di rigidissime norme per la circolazione dei treni che determinano, oltre a maggiori costi di produzione, anche un allungamento dei tempi di viaggio. Così facendo, si garantisce maggior sicurezza a chi utilizza il servizio ma si inducono alcuni a preferire l’auto che, sebbene oggi assai meno rischiosa del passato, lo è molto di più rispetto alla ferrovia.
Non ci sono, dunque, scorciatoie. Modificare, con le migliori intenzioni, il dettato costituzionale, introdurre una norma o una regolazione più severa non costa apparentemente nulla ma se poi non si fanno bene i conti il risultato rischia di essere l’opposto di quello auspicato. Forse non sarebbe male costituzionalizzare l’obbligo di predisposizione di analisi costi-benefici al cui esito positivo vincolare l’adozione di nuove forme di regolazione.