14 giugno 2024
di Marco Ponti
Questo articolo per il Corriere della Sera risale al 1914, ma risulta di straordinaria attualità.
Denuncia come un risultato contabile ufficiale delle Ferrovie dello Stato mascherasse una realtà industriale ben diversa, e anzi di segno opposto: si passava da un modesto attivo di bilancio a una perdita di dimensioni simili.
Il calcolo è basato sulla omessa valutazione dei costi di capitale, sia in termini di ammortamenti che di mancata redditività. Si articola in tre scenari: un primo in cui si presentano i risultati ufficiali, positivi, un secondo in cui si contabilizza solo la parte più recente dei costi di capitali omessi (e mostra un peggioramento dei risultati), ed un terzo che, considerando la totalità degli investimenti, mostra la loro inversione.
L’autore non disponeva allora dell’impianto teorico dell’economia del benessere, ed in particolare del concetto di “surplus sociale”, che entrerà in uso solo dopo la crisi economica mondiale del 1929 e le politiche di spesa keynesiane, che postulavano estesi progetti di infrastrutturazione.
A loro volta questi progetti pubblici avevano la necessità di strumenti di valutazione che consentissero di evidenziare dimensioni economiche incidenti sul benessere collettivo, ma non espresse direttamente dal mercato, quali ad esempio i risparmi di tempo di viaggio per viaggiatori e merci, o l’aumentata redditività agricola consentita in anni futuri da una migliore irrigazione, e altri fenomeni simili.
(Ovviamente costi e benefici ambientali poi non erano nemmeno nell’orizzonte logico dei valutatori).
Nasceva l’analisi costi-benefici, concettualmente definita un secolo prima dall’inascoltato pioniere francese Dupuit, e applicata per la prima volta in pratica per gli investimenti della Tennessee Valley Authority promossa dal presidente Roosevelt.
Einaudi comunque incentra la sua analisi su due principi che rimangono di sostanziale attualità: il primo è la necessità di trasparenza per la contabilità pubblica (“conoscere per deliberare” era un suo celebre motto).
Il secondo è più controverso, ma non eliminabile, ed è di tipo distributivo: perché tutti debbono sopportare i costi di un’impresa i cui servizi sono goduti solo da alcuni? E i servizi ferroviari non hanno caratteristiche economiche di “bene pubblico”, come la difesa o la giustizia.
Le infrastrutture hanno tuttavia la caratteristica di essere “monopoli naturali”, cioè di avere altissimi costi di costruzione rispetto ai costi di uso. Einaudi aveva ben chiaro il concetto, ma non disponeva di strumenti adeguati per trattare analiticamente strategie alternative di tariffazione.
Ma è sulla trasparenza dei costi di capitale che questo storico articolo ha forti legami con il presente.
Si può prendere atto che oggi per le ferrovie gli investimenti siano puri trasferimenti pubblici, esentati per legge sia da effettuare ammortamenti che da produrre reddito, ma non appare accettabile che tali mancati ricavi non vengano computati comunque.
Questo al fine di renderli compiutamente noti ai contribuenti che li sopportano (o ai cittadini che potrebbero optare per un diverso uso di quelle risorse).
BRT lo ha fatto nel libro “L’ultimo treno”, mentre è forse meno noto che una brava studiosa tedesca, per averli accuratamente calcolati e pubblicati, abbia immediatamente perso il posto da consulente delle ferrovie di quel paese.