7 ottobre 2024
di Francesco Ramella
“Italia in tilt per un chiodo”, “tutto il Paese bloccato”. Così, mercoledì 2 ottobre, molti giornali titolavano i servizi dedicati al guasto che ha messo fuori uso i sistemi informatici del nodo ferroviario di Roma causando la cancellazione di una settantina di treni e ritardi superiori ai 60 minuti per più di 50 altri convogli. Si tratta di esagerazioni: su cento occupati in Italia novantanove hanno raggiunto normalmente il luogo di lavoro. Il Paese ha funzionato più o meno come gli altri giorni a conferma del ruolo molto limitato che le ferrovie hanno per il complesso della mobilità ma, senza dubbio, si tratta di un episodio molto grave e che si inserisce in un quadro più ampio che vede i problemi di puntualità dei treni acuirsi negli ultimi tempi.
Come sono andate le cose? In base alla ricostruzione dell’evento fatta dalle Ferrovie, vi sarebbe stata inizialmente una interruzione della corrente elettrica a causa del maldestro operato di un tecnico. Sarebbero poi intervenute le batterie di back-up che per qualche ora hanno consentito al sistema di funzionare regolarmente ma, non essendo scattato il previsto segnale di allarme, quando queste si sono scaricate è successo il patatrac. Il ministro Salvini ha puntato il dito contro l’operaio e la ditta cui era stata affidata la manutenzione, ma la responsabilità dell’accaduto non può certamente essere circoscritta a questo livello. La possibilità di un errore deve essere messa nel conto soprattutto quando da esso possono dipendere conseguenze molto estese e si devono prendere le contromisure per porre il sistema in sicurezza.
Poi, per carità, nessuno è infallibile ed eventi analoghi a quello di Roma hanno interessato di recente anche le ferrovie svizzere e quelle olandesi che, pure, a ragione, vengono giudicate di elevato livello qualitativo. Ugualmente sbagliato è ritenere che il Ministro sia responsabile di un accadimento che, in tutta evidenza, ricade nella sfera di competenza aziendale. A Salvini, piuttosto, bisognerebbe chiedere conto della valanga di soldi dei contribuenti – intorno ai 150 miliardi tra il 2022 e il 2031 – che saranno destinati alle ferrovie, in molti casi per finanziare investimenti che danneggeranno la collettività avendo costi di gran lunga superiori ai benefici attesi.
Cosa dire invece dei ritardi che sono diventati molto più frequenti, in particolare per i servizi dell’alta velocità? Le cause principali in questo caso sembrano essere due. Da un lato, il successo che hanno avuto questi collegamenti e il conseguente forte incremento del numero di treni in circolazione. In queste condizioni una piccola perturbazione può trasformarsi in una valanga che va interessare un ampio segmento di rete. C’è da dire che i giapponesi sanno fare molto meglio e anche pochi secondi di ritardo sono un evento raro pur in presenza di un traffico intensissimo. Sono senza dubbio più bravi nell’organizzazione, ma sono anche avvantaggiati dal fatto che la loro alta velocità usufruisce di una rete dedicata che non ha conflitti con i servizi locali come accade da noi.
L’altro fattore che incide sulla circolazione è rappresentato dai numerosi interventi di adeguamento della rete in corso.
Si potrebbe pensare di limitare l’offerta di servizi o di diluire maggiormente nel tempo gli interventi, ma sono entrambe scelte non prive di ricadute negative e che dovrebbero anch’esse essere attentamente valutate alla luce di vantaggi e svantaggi.
Oltre a quello tattico, c’è poi un profilo strategico da analizzare. Le Ferrovie dello Stato non sono una normale impresa che sta sul mercato, investe risorse proprie e prospera o fallisce in base a quanti clienti è in grado di soddisfare. Si tratta di una società le cui entrate derivano per circa due terzi da trasferimenti pubblici e che non subisce alcuna particolare conseguenza negativa se il servizio lascia a desiderare. Non può fallire e, nel caso in cui i viaggiatori chiedano rimborsi, questi vengono in ultima istanza pagati da noi che siamo indirettamente gli azionisti della società. Mancano dunque forti incentivi a non commettere errori: forse, il fattaccio di Roma non sarebbe accaduto se il verificarsi dell’evento avesse potuto colpire il gestore della rete nel suo portafoglio. Perché questo accada l’infrastruttura dovrebbe essere privatizzata lasciando al soggetto pubblico il compito della regolazione. In soldoni: se il servizio che garantisci non è adeguato, ti pago di meno e sei tu a rimetterci.
In Europa non esistono oggi realtà di questo tipo. Ferrovie al 100% private sono quelle per il trasporto merci negli Stati Uniti: funzionano piuttosto bene e fanno ottimi profitti. Di qua dell’Atlantico l’unica esperienza significativa di privatizzazione, prima totale e poi limitata ai soli servizi di trasporto, con ritorno dei binari in mano pubblica, è stata quella britannica a metà degli anni ’90 dello scorso secolo. Lungi dall’essere stata un disastro, come vorrebbe la narrazione prevalente, dopo la riforma organizzativa, il numero di passeggeri sui binari è raddoppiato. Si tratta di una crescita di domanda che non ha paragoni negli altri Paesi europei (ad eccezione della Svezia) e che, in parte, è conseguenza della concentrazione di un maggior numero di persone a Londra ma che è anche figlia di un regime dove i profitti premiamo chi fa buone scelte imprenditoriali.