29 luglio 2025

di Francesco Ramella

E’ come se tutti i cittadini del mondo dovessero rinunciare alla colazione”, ha titolato il britannico Telegraph. Infatti, “la diminuzione della produzione delle principali colture significherà meno cibo disponibile per nutrire il mondo”.

Analoghi toni allarmistici ha utilizzato la CNN: “i bambini che nascono oggi potrebbero vivere in un mondo nel quale gli Stati Uniti possono produrre solo la metà delle loro colture alimentari chiave”.

E, in Italia, sul sito rinnovabili.it si può leggere che: “le rese dei raccolti sono in calo a livello globale e l’adattamento non basta a contenere le perdite”.

Gli articoli citati e molti altri di taglio identico danno conto di un articolo scientifico pubblicato a fine giugno sulla rivista Nature che si propone di stimare l’impatto del cambiamento climatico sulla produzione agricola nel mondo.

Come spesso accade, gli organi di informazione hanno fornito una rappresentazione non corretta dei contenuti dello studio; a parziale scusante sembra che i primi a drammatizzarne i risultati siano stati gli stessi autori.

Prima di entrare nel merito della vicenda, diamo uno sguardo al passato. Il timore che non sia possibile produrre cibo a sufficienza per tutti non è una novità. Quando il problema del cambiamento climatico non era ancora all’ordine del giorno, sotto accusa era la rapida crescita della popolazione. La “bomba demografica”, paventata a fine anni ’60 dello scorso secolo dal biologo statunitense Paul Ehrlich, avrebbe portato nell’arco di pochi anni o, al più, decenni al dilagare della fame. Non si era accorto lo studioso che la rivoluzione verde ideata da Norman Borlaug, premio Nobel per la pace nel 1970, stava già portando i primi risultati e tanto meno aveva messo nel conto che nei decenni successivi la produzione agricola sarebbe cresciuta radicalmente. Dal 1961 al 2023 la quantità di cereali raccolta è più che triplicata, passando da meno di un miliardo a più di tre miliardi di tonnellate. E, pochi giorni fa, la FAO ha emesso un comunicato nel quale annuncia che quest’anno si potrebbe raggiungere un nuovo record storico.

La crescita della produzione è stata più veloce di quella della popolazione e, quindi, la disponibilità di cibo pro-capite è anch’essa aumentata: nel mondo si è passati da 2.2000 kcalorie/giorno a poco meno di tremila e un significativo progresso si è registrato anche in Africa fino all’inizio di questo decennio caratterizzato da una situazione di stasi.

Ora, nello studio su Nature non si sostiene che la produzione di cibo diminuirà in termini assoluti rispetto a oggi ma che essa aumenterà meno di quanto sarebbe accaduto in assenza del cambiamento climatico.

E questo nonostante si assuma come riferimento per la stima del riscaldamento uno scenario di crescita delle emissioni del tutto irrealistico (un po’ come se si volesse stimare il numero di incidenti stradali ipotizzando che la velocità media in autostrada sia di 180 km/h invece che 120) e che non si tenga conto appieno delle future possibilità di adattamento, in particolare della rilocalizzazione delle colture nonché dello sfasamento temporale delle stesse rispetto a quanto accade oggi.

Non si tratta peraltro di un caso isolato. Uno studio dell’Imperial College di Londra aveva ipotizzato che l’ondata di caldo a cavallo tra giugno e luglio avrebbe triplicato i decessi rispetto a uno scenario senza riscaldamento globale; a Milano erano stati stimati 317 morti in eccesso e 164 a Roma. La realtà ha però smentito questa previsione. Come accertato dal Sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera (SiSMG), nella settimana tra il 25 giugno e il 1 luglio: “Tra le città del NORD la mortalità nella classe di età 65-74 anni è stata inferiore all’atteso, mentre la mortalità totale e nelle classi di età 75-84 e 85+ anni è stata in linea con il dato atteso. Tra le città del CENTRO-SUD la mortalità totale e in tutte le classi di età (65-74, 75-84 e 85+ anni) è stata in linea con il dato atteso”.

Il merito di questo risultato è verosimilmente da attribuite agli interventi di allarme e prevenzione messi in atto oltre che a un maggior ricorso agli impianti di aria condizionata; negli Stati Uniti l’ampia diffusione di questa tecnologia ha già consentito di ridurre drasticamente la mortalità per eccesso di calore rispetto agli anni ‘60 portandola a livelli molto più bassi di quelli europei.

Più in generale negli ultimi cento anni è fortemente accresciuta la nostra capacità di proteggerci da clima ed eventi atmosferici avversi: benché le nostre emissioni abbiano reso alcuni fenomeni più frequenti, l’utilizzo dei combustibili e la disponibilità di energia affidabile a basso costo unito all’accrescimento delle conoscenze scientifiche, ha reso possibile una difesa della vita umana come mai prima accaduto. Si è trattato di una terapia molto efficace seppure non priva di effetti collaterali.

Non dovremmo dimenticarcene quando, sull’onda della propaganda di scenari apocalittici infondati, ci si chiede di accelerare la transizione energetica: così facendo, se da un lato limitiamo il nostro impatto sul clima di domani, dall’altro riduciamo le nostre possibilità di difenderci oggi con un bilancio che, superata una certa soglia, diventa negativo.

Il motto della transizione non dovrebbe il draghiano whatever it takes ma il manzoniano: Pedro, adelante con juicio.