8 dicembre 2025

di Francesco Ramella

Pubblicato nel mese di aprile 2024 sulla prestigiosa rivista Nature, aveva avuto un grande successo di pubblico e critica. Nella classifica degli articoli scientifici più citati dai media nel 2024 aveva conquistato il secondo posto; era stato citato 168 volte e visualizzato oltre 300.000 volte.

Fonte: CarbonBrief

Ma non solo. Le sue risultanze erano state adottate dal Network for Greening the Financial System, un consorzio che raggruppa banche centrali di tutto il mondo (la FED ne è fuoriuscita a gennaio), e altre istituzioni finanziarie come riferimento per sottoporre a stress test le politiche monetarie tenendo conto dei rischi climatici. Qualche giorno fa è arrivata la retromarcia. Il paper è stato ritrattato perché, come riconosciuto dagli stessi autori, per porre rimedio agli errori metodologici rilevati da altri ricercatori: “sarebbero necessarie modifiche troppo sostanziali per una semplice correzione”.

Forse un po’ di prudenza in più da parte della rivista, di chi lo ha diffuso e adottato avrebbe giovato. Uno dei recensori, prima della pubblicazione, aveva scritto: “ho difficoltà a credere ai risultati, che appaiono intuitivamente troppo elevati… vale la pena indagare ulteriormente le possibili fonti di distorsione, perché sappiamo dall’esperienza passata che numeri pubblicati su riviste ad alto impatto e successivamente screditati possono creare molta confusione”.

Non si tratta, infatti, di un articolo che rispecchia quanto emerge dalla letteratura di settore ma di un outlier con risultati molto distanti da quelli che raccolgono la maggior parte dei consensi degli studiosi (il consenso non è decisivo in ambito scientifico ma non si può neppure utilizzare l’argomento del consenso a giorni alterni). I ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research giungono infatti alla conclusione che il cambiamento climatico porterebbe a un più che dimezzamento (-62%) del PIL mondiale al 2100.

Tale risultato dipende crucialmente dai dati relativi a un solo paese, l’Uzbekistan. Escludendolo dall’analisi i risultati diventano simili a quelli delle più pessimistiche analisi precedenti: la riduzione del PIL sarebbe intorno al 20%. Al riguardo occorre ricordare che si tratta di una diminuzione non rispetto alla situazione attuale ma calcolata a partire da uno scenario di riferimento; ad esempio, assumendo che nei prossimi 75 anni la crescita mondiale sia dell’1,5% all’anno, nel 2100 la ricchezza prodotta sarebbe pari a tre volte quella attuale. Tenendo conto del presunto catastrofico effetto del cambiamento climatico l’aumento sarebbe di 2,5 volte.

E c’è di più: la drammatica stima è basata – come accade in moltissimi altri articoli scientifici –  su uno scenario di riferimento, denominato RCP8.5, che era stato elaborato per esplorare un improbabile futuro ad alto rischio, con un aumento di temperatura di quasi 5 °C  a fine secolo causato da una crescita di cinque volte nell’uso del carbone, una quantità superiore ad alcune stime delle riserve recuperabili. In realtà, con modesti interventi di mitigazione il riscaldamento a fine secolo si dovrebbe attestare intorno a 2,5 °C.

Il messaggio contenuto esplicitamente nel paper ora ritirato è: ridurre drasticamente le emissioni ci costa molto meno che subirne i danni.

Ma, fatta la dovuta tara, questa conclusione non regge più e si ritorna alla casella di partenza con stime dei danni che ci dicono che rallentare è ragionevole, frenare bruscamente, no: i costi supererebbero i benefici.

Il caso illustrato non è peraltro unico ed è interpretabile alla luce di un sistema di incentivi che portano a enfatizzare gli articoli più eclatanti. Solo le cattive notizie sono vere notizie e una maggiore ricaduta mediatica non è ovviamente sgradita a chi produce una ricerca. È d’altra parte risaputo che le ricerche che giungono a risultati statisticamente significativi hanno una probabilità molto più elevata di essere pubblicati rispetto a quelli con risultati nulli per quanto ugualmente rigorosi dal punto di vista metodologico.

La pur faticosa ritrattazione evidenza però la capacità della ricerca scientifica di correggersi con la confutazione di congetture che si rivelano erronee. Non altrettanto positiva è stata finora, con poche eccezioni, tra cui il New York Times, la reazione dei mezzi di informazione che sembra improntata al troncare, sopire. Più che l’imparzialità poté l’attivismo delle redazioni?