Il Contratto per l’Italia non dedica molto spazio ai trasporti e quello che vi dedica appare molto generico e in parte contraddittorio, come è tipico dei compromessi tra visioni molto distanti. Proviamo a vedere più da vicino le caratteristiche ed i problemi del settore.
I trasporti (vedi tabella) rendono allo Stato circa 23 miliardi netti all’anno, tutti ascrivibili alla pressione fiscale sul settore stradale (+ 40 miliardi netti). I settori dei trasporti collettivi infatti, tra ferrovie (9 miliardi), e trasporti locali (6 miliardi) costano 15 miliardi netti ai quali si somma poco più di 2 miliardi per i porti e i servizi di navigazione.
La mobilità nel suo complesso non è dunque un settore di spesa, come spesso è ritenuto, ma al contrario è un settore in fortissimo attivo per lo Stato. I suoi costi fiscali complessivi premono su famiglie ed imprese in modo rilevante, e sostanzialmente regressivo, come dimostrano i dati ISTAT.
Il governo uscente ha lasciato in eredità a quello entrante una serie di problemi irrisolti, che qui di seguito si elencano in modo estremamente sintetico, nella logica di fornire una sorta di memorandum, connotato da altrettanto sintetiche possibili linee di intervento. Quel governo tuttavia non ci ha lasciato in eredità alcuna analisi critica del settore basata sulle banali cifre sopra esposte, come fossero irrilevanti per le scelte politiche.
La prima questione è certo quella del ruolo economico dei diversi modi di trasporto: l’altissima pressione fiscale sul modo stradale e l’altissimo livello dei trasferimenti ai modi collettivi, in atto da molti decenni, non hanno ottenuto alcun rilevante risultato in termini di spostamento di traffico su questi ultimi, ne è prevedibile che la otterranno in futuro, se non per quote marginali, come si può evincere anche dal confronto con altri Paesi che dispongono di un’offerta qualitativamente e quantitativamente superiore a quella del nostro Paese.
I miglioramenti ambientali del settore, molto rilevanti in termini sia di emissioni unitarie che di sicurezza, sono tutti interni al settore stradale, e sono legate principalmente al progresso tecnico. Ma la pressione fiscale sul settore ha alzato anche i costi di trasporto per le imprese, data l’assoluta dominanza della strada per il trasporto delle merci, che non appare, come detto, reversibile se non per piccole quote. La riduzione di accise sui carburanti avrebbe senso solo a parità di costi per l’erario, cioè sei quei 6 miliardi fossero compensati da “tariffe di congestione” (e il risultato sarebbe anche più efficiente dal punto di vista ambientale). Questo, dati i vincoli di bilancio, tuttavia non sembrano essere di alcun rilievo per i proponenti.
Gli impatti distributivi dei trasferimenti ai trasporti collettivi appaiono per lo meno ambigui, e mai oggetto di serie valutazioni quantitativa: si pensi all’Alta Velocità, o al fatto che la gran parte dei trasporti pubblici è usata da studenti ed impiegati che si recano in aree centrali. Le categorie a più basso reddito (operaie soprattutto) espulse dalle aree centrali dalla rendita urbana, non possono, per ovvi problemi di densità localizzativa, che servirsi degli ipertassati trasporti individuali.
In termini di investimenti, il documento si limita a nominare due sole grandi opere (TAV e terzo valico) e non è ancora del tutto chiaro in che termini. Ma si tratta di costi relativamente esigui sul totale: abbiamo ereditato un piano di più di 100 miliardi di nuove opere, per le quali non è nota alcuna valutazione né in termini economici né finanziari né di domanda di traffico, e su molte delle quali sono legittime forti perplessità (soprattutto per quelle ferroviarie, interamente a carico delle casse pubbliche). E non sono disponibili analisi quantitative dei previsti benefici ambientali: forse perché, se prodotte, esse svelerebbero la pressoché completa irrilevanza della “cura del ferro” ai fini della sostenibilità. La viabilità ordinaria, di gran lunga l’infrastruttura più utilizzata (che quindi genera per via fiscale i maggiori introiti pubblici), sembra in cattive condizioni di manutenzione ed oggetto di una quota esigua di investimenti. L’Italia a livello europeo, contrariamente a quanto spesso affermato, investe nelle infrastrutture di trasporto più degli altri maggiori paesi.
In termini di assetto del mercato nel settore, abbiamo assistito al consolidamento di un quasi-monopolista pubblico (FSI), che si sta integrando verticalmente ed orizzontalmente. Le concessioni autostradali, onerosissime per gli utenti, non sembrano avviate ad una seria riforma, ed alcune sono state anzi prolungate senza gara. Nel trasporto pubblico locale, una moderata riforma di maggiore apertura al mercato è sulla carta, ma finora effetti non se ne sono visti, e dopo 30 anni di tentativi anche qui i dubbi sembrano più che legittimi. Atteggiamenti politici fortemente protezionistici permangono sia nel settore aereo (Alitalia), che in quello dei taxi, che infine in quello degli autobus di lunga distanza, che servono domanda di basso reddito e non costano nulla allo Stato.
Oltre ad intervenire sui problemi del passato qui accennati, un radicale cambio di strategia complessivo per il settore che abbia come cardine l’innovazione tecnologica e non il cambio modale sembra improrogabile. Qui il contratto di governo sembra condivisibile, promuovendo con decisione la mobilità elettrica ma poche righe dopo promuove anche il ruolo delle ferrovie, onerosissime per le casse pubbliche. L’ottica di non scontentare nessuno a spese del contribuente sembra davvero dominare il documento.
Nessuno oggi dubita che una rivoluzione tecnologica nel settore sia alle porte, e l’Italia ne sembra finora quasi assente (il grosso delle risorse va alla “cura del ferro”). Questa rivoluzione invece riguarda quasi interamente il mondo stradale, e genererà dapprima veicoli ancor più sicuri e meno inquinanti. In un tempo appena successivo, si realizzeranno sistemi di guida automatica, eliminando, grazie al crollo dei costi, una quota significativa delle automobili in proprietà (i costi di un taxi elettrico senza autista, quindi anche con costi di ammortamento e di carburante molto ridotti, risulteranno difficilmente confrontabili con quelli di un’auto in proprietà).
Rinunciare a questa sfida destinando moltissime risorse per il perseguimento di obiettivi marginali sembra una strategia davvero poco difendibile.
Stima della spesa netta annua per il settore pubblico dei trasporti in Italia
Fonte: Nostre elaborazioni sul CNT ed altre fonti ufficiali
Marco Ponti e Francesco Ramella, “Bridges Research”