, 5 febbraio 2020
di Marco Ponti
Falliscono o chiudono. Ne siamo circondati: Alitalia, Ilva, Whirlpool, imprese di grande distribuzione ma anche miriadi di piccoli negozi, Alcoa in Sardegna…ci sono più di un centinaio di crisi aziendali maggiori.
Vediamone le cause più diffuse: concorrenza a livello di prodotti (innovazioni tecnologiche) o di processi (imprese con costi minori perché più automatizzate), cambio di gusti degli utenti (abbigliamento, alimentari), costi del lavoro inferiori altrove. E qui leggiamo un primo scandalo grave: o si è sovranisti dichiarati (“prima gli italiani”), o come non rallegrarsi che dei lavoratori più poveri vanno a star meglio?
Ma anche tasse inferiori: e anche qui, come possiamo lamentarci se un altro paese ha i conti più in ordine dei nostri, e così può tenere le tasse più basse per il bene dei propri lavoratori? Poi ci sono gli errori di gestione, a volte fatali: figli incapaci di padri imprenditori brillanti, scelte di manager ignoranti, ecc..
Poi condizioni naturali che vengono al pettine: costi dell’energia e della materia prima difficilmente sostenibili (per esempio la siderurgia e l’alluminio sono industrie “energivore”, ed occorre importare i minerali da grande distanza, mentre i concorrenti stanno “a bocca di miniera”).
Poi ci sono le fluttuazioni internazionali della produzione: di nuovo a livello mondiale l’acciaio è in sovraproduzione da molti anni, e quindi i prezzi sono bassi, con i problemi relativi.
Infine ci sono le motivazioni criminose, che vanno duramente colpite: bancarotte fraudolente, chiusure “di comodo” per licenziare e poi riassumere a meno, fughe all’estero di imprese che avevano ricevuto sussidi pubblici per rimanere, ecc..
Ma le imprese falliscono o si spostano “normalmente” da due secoli e mezzo, cioè da quando c’è il capitalismo. Le economie sviluppate sono diventate tali anche perché le imprese sono state lasciate fallire. La crescita dei redditi, dell’occupazione totale, poi del welfare, lo sviluppo di tecnologie innovative, della medicina che ci ha molto allungato la vita, ecc. sono tutte conseguenze di quel meccanismo.
Il problema è proteggere i più deboli che di quel meccanismo sono vittime, e questa è una grande priorità sociale, forse la maggiore per le sofferenze che crea. Ma è follia impedire il meccanismo, cioè impedire che le imprese falliscano o emigrino (poi gli altri non lasciano emigrare le loro da noi…). Si ammazza la gallina che fa le uova d’oro, e spesso così si aiutano con soldi pubblici imprenditori o manager che non lo meritano affatto (viene prepotentemente in mente il caso dei 10 miliardi ad Alitalia, ma anche altre vicende che rischiano di assorbire per anni fiumi di soldi pubblici senza risolversi).
lo Stato spesso manca della cultura o semplicemente delle informazioni per sostituirsi efficacemente agli imprenditori e ai manager. Molti nostalgici delle grandi imprese pubbliche (a destra e sinistra) dimenticano che l’IRI non è stata fatta chiudere dalla “cattiva Europa dei banchieri”, ma da un fiume di perdite che contribuivano a scassare i nostri conti pubblici.
Il tanto attaccato reddito di cittadinanza va nella giusta direzione, soprattutto se si migliora la capacità del meccanismo di far incontrare domanda e offerta di lavoro. Protegge le vittime di un progresso tecnico che di lavoro non ne crea a sufficienza, e di strumenti simili, possibilmente con analoga trasparenza, saranno in molti a doversi servire. L’alternativa di mettere bastoni tra le ruote di quel progresso ci condannerebbe poi anche all’impossibilità di generare risorse per strumenti sociali di quel tipo.