5 febbraio 2020

di Francesco Ramella

In un articolo pubblicato il 30 gennaio su Il Sole 24 Ore che riprende i risultati uno studio di Ennio Cascetta, già alla guida della Struttura tecnica di missione del MIT con il Ministro Delrio, si rilancia con forza la tesi secondo la quale, per riprendere il sentiero della crescita, serve somministrare con urgenza all’Italia un’ulteriore dose di “cura del ferro”: se si dovesse perdere ancora tempo, si rischia di arrivare troppo tardi con gravi conseguenze per il paziente. Servono più linee ad alta velocità, più metropolitane e i valichi di base per attraversare le Alpi. Infatti, le Province il cui capoluogo è servito da collegamenti AV crescono molto di più di quelle che ne sono prive. Senza valichi poi rischiamo poi di vedere frenato il nostro export.

Ma è davvero così? È realistico pensare che una migliore dotazione di ferrovie e metropolitane possa avere un effetto macroscopico sulla crescita del Paese? Se così fosse, avremmo già dovuto averne un riscontro. Il salto di qualità della rete di lunga percorrenza è stato in larga misura completato dieci anni fa. E risalgono allo stesso periodo forti investimenti nella rete metropolitana e nei nodi ferroviari di Torino e di Napoli.

Ahimè, dal completamento della AV a oggi di crescita ne abbiamo vista assai poca: dopo essere precipitati, i livelli di reddito non sono ancora risaliti al livello pre-recessione. Si può certo sostenere che senza Alta Velocità l’evoluzione sarebbe stata ancora peggiore ma è indubitabile che l’AV non abbia rappresentato, come ripetuto con insistenza da più parti, un “volano per l’economia”. Tale conclusione non dovrebbe stupire più di tanto se si guarda al bacino di influenza della nuova infrastruttura. Non vi è dubbio che, anche grazie anche all’apertura al mercato, questo segmento dell’offerta di trasporto abbia avuto una crescita rapidissima ma non dovremmo dimenticare che esso soddisfa una piccola nicchia della mobilità. Si tratta di poco più di 150.000 viaggi al giorno.  Su 1.000 italiani ve ne sono meno di 2 che salgono su un Frecciarossa o Italo. Per quanto possa essere cresciuta la produttività di queste persone che prima si spostavano in aereo o in auto o che non effettuavano il viaggio, è davvero difficile pensare che questo effetto possa avere dei riflessi macroscopici sul PIL nazionale.

D’altra parte, se analizziamo l’evoluzione della ricchezza prodotta nelle Province il cui capoluogo è sede di una stazione sulla rete AV emerge un quadro assai disomogeneo.  Tra il 2008 e il 2016 il PIL è aumentato del 13,4% nella Provincia di Bologna, del 3,2% in quella di Roma ed è diminuito del 3,2% a Napoli che ha fatto peggio della Campania nel suo insieme. Appare dunque evidente come il disporre di un collegamento ferroviario veloce per gli spostamenti di lunga percorrenza e di un servizio di più alto livello qualitativo per quelli locali non è affatto condizione sufficiente per garantire la crescita.

Possiamo altresì aggiungere che il trovarsi in prossimità di una linea AV non è condizione necessaria allo sviluppo: la performance migliore tra le Province italiane negli anni successivi al 2008 è quella di Bolzano il cui capoluogo dista 250 km dalla più vicina stazione AV e il cui PIL è cresciuto quasi il doppio rispetto a Milano e sei volte tanto quello di Roma.

Si può dunque crescere molto (almeno in termini relativi) senza binari veloci e decrescere avendone a disposizione in abbondanza. E, per tornare ai valichi alpini, si può banalmente constatare come la forte crescita dell’export degli scorsi anni non abbia trovato alcun ostacolo nella indisponibilità di linee ferroviarie più prestanti rispetto a quelle odierne. Ostacoli che, forse, verranno paradossalmente introdotti domani per indurre le imprese a utilizzare servizi di servizi ferroviari altrimenti non competitivi con quelli su gomma sebbene gravati da elevatissimi pedaggi e che dovrebbero essere ridotti.

Dobbiamo dunque concludere che le infrastrutture non abbiano alcun impatto positivo sulle prospettive di sviluppo di un territorio? Certamente no, ma appare evidente che una miglior dotazione infrastrutturale non sia un elemento determinante. Occorrere quindi valutare con attenzione i singoli progetti per comprendere se il costo da sopportare è giustificato o meno e non buttare il cuore o, meglio, il portafoglio del contribuente oltre l’ostacolo prospettando inverosimili miracoli economici.

Sono dunque necessarie serie analisi costi-benefici. E, considerato che una parte significativa delle ricadute positive di cui si tiene conto in queste valutazioni non hanno impatti sulla produttività, si può ritenere che ben difficilmente un progetto che non superi questo esame possa contribuire positivamente alla crescita mentre è certo che, nel caso di ferrovie e metropolitane, va ad accrescere la zavorra del debito.

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