18 ottobre 2020
di Francesco Ramella
Non vi è forse altro tema che veda forze politiche senza distinzione alcuna, associazioni imprenditoriali e sindacati uniti, senza se e senza ma, a favore degli investimenti in infrastrutture.
La Ministra De Micheli ha a più riprese alzato l’asticella dell’ammontare complessivo degli investimenti che ora sembra attestarsi intorno ai 200 miliardi per i prossimi dieci anni. D’altra parte, se aumenta la spesa pubblica cresce anche il PIL. Ma allora perché limitarsi a 200 e non spenderne 300? O 400? Il PIL non sarebbe ancora più alto? E così gli occupati? La nozione del costo opportunità di quelle risorse sembra essere inesistente. Eppure, non dovrebbe essere difficile comprendere che qualsiasi scelta di spesa implica che le risorse impegnate per un determinato progetto sono sottratte a tutti i possibili impieghi alternativi.
Quale dovrebbe essere il criterio che ci consente di valutare se realizzare una nuova infrastruttura sia auspicabile oppure no? Il “minimo sindacale” dovrebbe essere che i benefici superano i costi. Quanti solo coloro che entrano in un negozio e prima di decidere se effettuare o meno un acquisto non si informano sul prezzo? La seconda domanda che ci si dovrebbe porre è: con gli stessi soldi è possibile acquistare qualcosa che ha maggior valore? Così dovrebbe essere anche per le infrastrutture: un investimento è auspicabile se non vi è impiego alternativo delle stesse risorse che possa determinare un beneficio maggiore.
Sembra, al contrario, che il “criterio” adottato sia il seguente: l’investimento è valutato positivamente perché comporta dei benefici. Ma anche solo il buon senso ci dovrebbe dire che non può essere questo il metro di giudizio. Se lo fosse, ne conseguirebbe che qualunque progetto è auspicabile. Controprova: se si chiede al sostenitore della realizzazione di una nuova opera quale sarebbe il suo giudizio nel caso in cui la stessa costasse il doppio o il triplo, la reazione abituale è quella di un imbarazzato silenzio. Oppure ci si gioca il jolly: l’opera è “strategica”. Per farla breve: dal salario al costo come variabile indipendente. O, forse sarebbe più corretto dire, come variabile da massimizzare.
Eppure, volendolo fare, non sarebbe difficile applicare alle scelte pubbliche un approccio analogo a quello delle scelte individuali o di quelle delle imprese. La metodologia esiste ed è consolidata nei suoi aspetti essenziali da molti decenni: è l’analisi costi-benefici. Che ha avuto un breve momento di popolarità lo scorso anno e sembra ora essere tornata nel deposito degli attrezzi inutilizzati.
Esito abbastanza prevedibile se chi dovrebbe servirsene per orientare il proprio giudizio ha già la risposta in tasca. Qualcuno però i conti si ostina a volerli fare. E’ il caso della Autoridad Independiente de Responsabilidad Fiscal spagnola che ha pubblicato una spending review della rete ferroviaria ad alta velocità in Spagna.
Nonostante le assunzioni molto ottimistiche, i risultati non sono entusiasmanti. Solo per uno dei progetti esaminati, i benefici superano, di poco, i costi. Per un altro corridoio i costi eccedono gli impatti positivi per circa un miliardo e per gli altri due esaminati la perdita di benessere è stimata pari rispettivamente a 3,5 e a 5,7 miliardi.
Il risultato negativo dipende anche dal fatto che, come accade quasi sempre, a consuntivo i costi di realizzazione delle linee sono risultati superiori a quelli preventivati inizialmente: lo scarto medio è superiore al 50%.
In termini assoluti, peraltro, i costi di costruzione risultano, grazie alla orografia non particolarmente problematica, molto al di sotto della media europea e allineati a quelli della Francia. Un chilometro di linea è costato in media 15,3 milioni di euro, la metà rispetto all’Italia e circa un sesto rispetto alla galleria della linea Torino – Lione.
Simmetricamente, i passeggeri reali sono inferiori a quelli previsti inizialmente. Sulla tratta Madrid – Siviglia le stime inziali oscillavano tra i 3,5 e i 4,5 milioni di persone all’anno, il numero effettivo di utenti è risultato nel 2015 pari a 2,1 milioni.
Si dirà, ed è vero, che l’analisi costi-benefici misura solo l’efficienza della spesa ma non cattura altri aspetti che possono influire sulla decisione politica di effettuarla. Uno dei temi ricorrenti è quello della “coesione territoriale”. A detta di molti, le infrastrutture servirebbero a colmare il divario di competitività di cui soffrono le aree periferiche. La letteratura economica ci dice però che spesso questo non accade e che il disporre di una migliore rete di collegamenti avvantaggia le aree già più forti in partenza. Ed è quello che è successo in Spagna: l’alta velocità ha accresciuto le disparità territoriali.
Ovviamente tornare indietro non è più possibile.
Questa insieme ad altre valutazioni dovrebbero però servire a non ripetere gli stessi errori in futuro e spingerci a cercare di verificare ex-ante gli effetti degli investimenti. Il decisore pubblico non dovrà rispondere a nessuno delle scelte fatte: il risultato si potrà verificare solo a distanza di decenni. Meglio dunque fargli i conti in tasca fin da subito. Soprattutto perché le tasche non sono le sue ma quelle dei contribuenti. E meglio che a farlo sia un soggetto terzo e indipendente. Come ricordano maliziosamente i revisori della spesa spagnoli, tutte le valutazioni promosse da ADIF, il gestore della rete iberica, avevano portato a un risultato positivo.