2 novembre 2020

di Marco Ponti

Un minimo di teoria economica forse è utile per capire il problema, e quella conosciuta come “Teoria delle scelte pubbliche” (“Public Choice”) sembra poter davvero aiutare. Recita, in estrema sintesi, che nei sistemi capitalistici avanzati, la dimensione economica dominante del consenso è basata sulla reale o attesa ridistribuzione del reddito tra gruppi di interessi ben connotati e coesi, che si mobilitano a votare solo in base a concrete prospettive a loro favorevoli. Tecnicamente, si chiama “cattura dei decisori”. Gli altri “stanno a casa”.

La conferma di questo tipo di analisi per quanto riguarda i 5S è d’altronde riscontrabile nella mancanza quasi totale di riscontro elettorale su alcuni temi generali in cui il Movimento ha prevalso, relativi alla giustizia, o ad alcune forme di tutela del lavoro, e persino nella riduzione dei parlamentari, dove nonostante il netto successo, non hanno ottenuto alcun aumento di voti “diretti”, piuttosto il contrario.

Per continuare l’analisi, dobbiamo subito osservare che la maggior e più innovativa e coraggiosa azione ridistributiva del Movimento, quella del Reddito di Cittadinanza, grazie paradossalmente proprio al suo carattere diffuso, non ha coagulato un gruppo di interessi coeso e mobilitabile. I percettori non hanno spazi per dialogare tra loro o farsi rappresentare.

Sembrerebbe che il Movimento più recentemente abbia iniziato a cogliere il problema, ma forse non nel migliore dei modi. Ha cambiato radicalmente posizione su alcuni temi, alleandosi nei contenuti ad altri partiti, anche di destra. Si pensi per esempio alle Grandi Opere che precedentemente osteggiavano (il “partito del cemento”, molto forte in Italia) e che ora sostengono, o alla difesa di alcuni gruppi coesi (i titolari degli stabilimenti balneari, con un assurdo prolungamento delle loro rendite contro la normativa europea, gli addetti ai servizi pubblici inefficienti cui vengono risparmiate le gare). Ma senza risultati: è d’altronde molto frequente che agli imitatori improvvisati si preferiscono gli “originali”, consolidati da anni di clientelismo.

E i temi programmatici originali, le “cinque stelle”, (acqua pubblica, ambientemobilità sostenibilesviluppo e connettività), non sembrano avere più alcun mordente, probabilmente in parte per la loro impossibilità tecnica a legarsi a gruppi di interesse connotati, e in parte per scarsa efficienza politica dei promotori. In effetti quelle “stelle” peccano anche di genericità, e molti dei loro elettori nemmeno più li ricordano.

Un tema che non sembra connotabile direttamente in termini economici (e non facente parte del gruppo dei 5 originari), è l’ostilità al sistema parlamentare e il favore per la democrazia diretta. Ma il tema in realtà può avere anche una lettura economica. Infatti ha contribuito fortemente a sconcertare l’elettorato, che ne ha constatato il fallimento tecnico (la piattaforma Rousseau) e soprattutto politico: il movimento oggi si muove pienamente all’interno di una logica parlamentare.

Infatti anche in una ipotesi di successo, un modello di democrazia diretta non consentirebbe per definizione l’aggregazione e la mediazione di interessi, che abbiamo visto essere alla base dell’organizzazione del consenso.

E proprio in termini di consenso, vediamo ora la madre di tutti i fattori che ne impediscono lo strutturarsi: la dichiarazione di essere post-ideologici, né di destra né di sinistra. Questo atteggiamento impedisce l’identificazione di gruppi di interessi, e la sua dichiarata variabilità nel tempo e nelle circostanze (evidenziata concretamente dal succedersi di alleanze contraddittorie sia in Italia che he in Europa), rafforza una percezione di inaffidabilità.

Infine c’è la dimensione internazionale: verso l’Europa alcune componenti importanti del movimento hanno avuto atteggiamenti molto ostili, fino a identificarsi con posizioni sovraniste: si dipingeva un’Europa avversa a politiche ridistributive (“austerità neoliberista”), in un continente dove il 40% del reddito nazionale transita per la mano pubblica, e ha un sistema di welfare assai solido. Certo questo atteggiamento, se pur forse minoritario, ha spaventato molti gruppi della classe media (e non si intende tanto Confindustria, fenomeno comprensibile, ma tutti i numerosi e coesi lavoratori autonomi e professionali), senza che per altro che il Movimento si dichiarasse esplicitamente su posizioni vicine ad una sinistra tradizionale ed operaia.

Ora l’atteggiamento verso l’Europa della maggioranza del movimento, anche grazie ai ripetuti successi di Conte, sembra radicalmente cambiato. Certo una posizione realistica e coerente con la flessibilità dichiarata, ma non favorevole ad una immagine di affidabilità. E sulla questione del MES, strumento economico di utilità discutibile, l’opposizione è riuscita a dipingere la posizione del movimento come antieuropeista, recuperando strumentalmente atteggiamenti passati oggi riconducibili solo a una stretta minoranza.

In estrema sintesi: la non-scelta programmatica di una linea di politica economica identificabile e stabile, ha determinato l’impossibilità di identificazione con il Movimento di specifici gruppi socioeconomici, che costituiscono gli elementi costitutivi dei moderni sistemi di organizzazione e conquista del consenso. E se il Movimento si decidesse a darsi un vero programma economico non ondivago, dovrebbe lasciar perdere scelte sterili e passatiste (l’esempio delle Grandi Opere è clamoroso) e puntare su settori e gruppi di interesse di natura opposta, cioè concentrati sull’innovazione e l’informatizzazione. Certo molto più pericoloso in termini di consenso sarebbe combattere le rendite e promuovere la concorrenza, nonostante questi fattori da siano da un lato il motore della crescita, e dall’altro la sola legittimazione del capitalismo.

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