21 marzo 2022

di Francesco Ramella

Sale il prezzo dei carburanti e i Governi europei corrono ai ripari riducendo o rimodulando la tassazione.

È un provvedimento auspicabile? Ed è compatibile con lo stato della nostra finanza pubblica?

C’è chi negli scorsi giorni ha correttamente fatto notare che benzina e gasolio più cari hanno come conseguenza un minor consumo degli stessi e, quindi, una riduzione delle emissioni di CO2. Quello che impoverisce noi consumatori è un bene per il clima e viceversa.

C’è anche chi sostiene, tra questi il MiTE nel “Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi”, che in Italia l’uso del gasolio è già incentivato.  Ma è davvero così? Possiamo definire il sussidio in due modi: uno più lasco, ossia quando siamo in presenza di un provvedimento pubblico che porta il prezzo al consumo al di sotto del livello che si determinerebbe nel mercato e un secondo, più rigoroso, che tiene conto anche del fatto che l’uso dei carburanti comporta esternalità negative per la collettività. In base a questa accezione, siamo in presenza di un sussidio quando la tassazione è inferiore al danno arrecato. Tranne poche eccezioni, questa condizione in Italia non è verificata: la tassazione eccede le esternalità ambientali generate. La componente fiscale rappresenta ancora oggi oltre la metà del prezzo alla pompa per la benzina e poco meno per il gasolio. E si tratta di una forma di prelievo regressivo: la quota di spesa per i carburanti è più elevata per le famiglie che appartengono ai primi due quintili.

Fonte: MiTE, Prezzi medi settimanali dei carburanti e combustibili, 14 marzo 202

Fonte: ISTAT, Rapporto Annuale 2013

Complessivamente le entrate fiscali correlate al consumo dei carburanti ammontano in Italia a oltre 37 miliardi. E il gettito totale del settore del trasporto stradale è pari a 76 miliardi.

Fonte: ACEA, Tax Guide 2021

La spesa pubblica corrente e in conto capitale per le strade da molti anni è inferiore ai 20 miliardi.

Auto e camion generano dunque un “tesoretto” per lo Stato che supera i 50 miliardi per anno.

Al contempo, i mezzi stradali producono poco meno di cento milioni di tonnellate di CO2, più di un quarto delle emissioni totali del nostro Paese, quota in crescita nel tempo. Vi è un consenso pressoché unanime sul fatto che tale tendenza sia ambientalmente insostenibile e che, per rendere possibile la decarbonizzazione, sia necessaria una profonda trasformazione del settore della mobilità con il passaggio dai motori a combustione a quelli elettrici e con la riduzione degli spostamenti su strada a favore di quelli su ferrovia e trasporti collettivi. Non è esattamente così.

In base ai risultati di una recente analisi di Goldman Sachs, è possibile ridurre metà delle emissioni mondiali di CO2 ad un costo inferiore ai 50 dollari per tonnellata.

Si potrebbe quindi fin da oggi rendere carbon neutral tutto il trasporto stradale destinando al finanziamento di interventi di riduzione delle emissioni in altri settori all’incirca cinque miliardi equivalenti al 10% delle entrate nette statali.

Nel medio-lungo periodo la politica di decarbonizzazione attuata con l’adozione dei veicoli elettrici dovrebbe essere considerata una delle opzioni e non l’unica praticabile. Potrebbe essere più conveniente per una parte della domanda non evitare di emettere la CO2 ma catturarla (analogamente a quanto già accaduto per gli inquinanti locali; un’auto Euro 6 ha emissioni inferiori di oltre il 90% rispetto a una Euro 0 senza modifica della tipologia di motore): oggi il costo di questa tecnologia è inferiore ai 200 dollari per tonnellata sequestrata ed è verosimile che in futuro esso si abbassi ulteriormente. Scegliere apriori un vincitore non sembra molto saggio.

Una riduzione della fiscalità sull’auto sarebbe dunque compatibile con la sostenibilità ambientale. Il vero vincolo è rappresentato dall’equilibrio del bilancio: condizione necessaria per ridurre in forma stabile il prelievo è quella di agire in parallelo sul lato della spesa. Per rimanere all’ambito della mobilità, sappiamo che i trasporti collettivi e le ferrovie assorbono contributi pubblici intorno ai 15 miliardi per anno. La motivazione principale di tale impiego di risorse è, come detto, quella di una riduzione della quota di domanda soddisfatta dalla strada. Decenni di esperienza alle nostre spalle mostrano però come tale obiettivo non sia perseguibile. La quota di mercato dell’auto è oggi in Italia ed Europa grosso modo la stessa di trent’anni fa, intorno all’ottanta per cento del totale.

E molti Paesi dotati di un’offerta di servizi pubblici migliore della nostra hanno più elevate emissioni di CO2.

Fonte: European Commission, EU Transport in Figures 2020

Puntare ancora sulla ferrovia, investendo altre decine di miliardi, non farà alcuna differenza di un qualche peso. Sarebbe necessaria una spending review tramite la quale selezionare i pochi interventi con benefici superiori ai costi. E una riduzione di spesa significativa sarebbe possibile anche per il trasporto collettivo locale mantenendo inalterati i servizi e le tariffe se, grazie all’introduzione di elementi competitivi, le aziende italiane divenissero efficienti come quelle britanniche (oggi hanno costi di produzione doppi).

Infine, dal lato delle entrate si potrebbero recuperare risorse a livello locale con sistemi di pedaggio e di tariffazione della sosta nelle zone più dense dove il traffico privato è eccessivo.

Un assetto diverso da quello attuale e sostenibile sia in termini ambientali che di finanza pubblica è dunque possibile. Quella che sembra mancare è la volontà politica di scontentare coloro che oggi, come produttori di servizi o come consumatori, traggono benefici ingiustificati addossandone i costi alla collettività.