15 luglio 2022
di Marco Ponti
Due infrastrutture importanti per la regione Abruzzo sono oggetto attualmente di importanti decisioni pubbliche: sono l’Autostrada dei Parchi (A24 e A25, Roma-Pescara, con un ramo che raggiunge Teramo, in concessione a Carlo Toto), di cui è stata revocata la concessione, e la progettata nuova o rinnovata ferrovia Roma-Pescara, opera dai costi previsti di 2,35 MD€, interamente a carico dell’erario. Entrambe hanno Roma come destinazione dominante.
La revoca della concessione autostradale è oggetto di ricorso da parte del concessionario. Si tratta dell’esito di un complesso contenzioso con il concedente, e non è possibile qui esprimere valutazioni tecniche e normative specifiche, né pronunciarsi su possibili esiti. Vengono rimproverate al concessionario inadempienze manutentive, e il concessionario contesta invece mancati aumenti tariffari che le avrebbero consentite.
Proviamo a capire perché le concessioni autostradali in Italia hanno funzionato così male, soprattutto con costi elevati per gli utenti e in alcuni casi con manutenzione inadeguata (fino a conseguenze tragiche).
Questa era l’ultima delle infrastrutture da affidare in concessione: le autostrade sono strade non troppo diverse dalle strade statali maggiori, di tecnologia elementare, assai più semplici, per esempio delle ferrovie, quindi nulla di particolare da imparare dai privati.
Il motivo è che gli utenti sono molto disposti a pagare per usare le strade (si pensi alle tasse sui carburanti, tra le più alte al mondo), per cui pagano “volentieri” anche i costi di investimento (per le ferrovie non pagano nemmeno i costi di esercizio, come vedremo). Una fontana di soldi, che lo Stato ha spartito volentieri con i privati. Ha risparmiato i soldi degli investimenti, ha incassato le tasse sulla benzina di chi le percorreva e le royalties sulle concessioni, e ha anche fatto a metà dei profitti dei concessionari per via fiscale. Ha anche fatto concessioni inutilmente lunghe, e riconosciuto elevati livelli di profitto garantito ai concessionari. Infine, ha controllato in modo inadeguato la manutenzione, ignorando che i manufatti in cemento armato hanno una vita limitata.
Si è ben guardato da tutelare gli utenti, spremuti come limoni dalle tariffe, prima sottraendo le concessioni alla vigilanza dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART) e poi non prevedendo che una volta ammortizzato l’investimento non era più equo continuare ad esigere un pedaggio (in Spagna anno liberalizzato l’autostrada costiera del sud, quando è stato verificato che gli utenti l’avevano pagata). Il pedaggio è di fatto diventato una tassa arbitraria, ma irrinunciabile.
Nel caso Autostrade per l’Italia (AspI) lo Stato ha rinunciato a revocare la concessione e ha coperto d’oro il concessionario con quasi 9 miliardi di buonuscita, nonostante la tragedia del ponte Morandi, probabilmente proprio perché aveva una pessima coscienza circa il proprio operato passato; comunque non è escluso che farà pagare tutto agli utenti, nonostante i tentativi fatti da ART di tutelarli, almeno parzialmente.
Forse con Toto non ha avuto più il coraggio di ripetere l’operazione. Non è tuttavia affatto detto che alla fine anche qui lo Stato non scarichi tutti i costi del contenzioso sugli indifesi utenti.
In realtà occorrerebbe gradualmente chiudere tutte le concessioni, ma non certo per passare a una gestione pubblica diretta. Da chi ha controllato così male le concessioni, non c’è da aspettarsi molta efficienza come gestore diretto.
Di nuovi investimenti in realtà ne servono pochi (basta considerare il calo demografico e la stagnazione del PIL, che sono i due “driver” della domanda di trasporto). Inoltre la maggior parte della rete è già stata ammortizzata dagli utenti. E’ sufficiente mettere in gara periodica la manutenzione, magari includendovi parte delle reti locali spesso messe peggio delle autostrade, raccogliendo le risorse necessarie con “tariffe di congestione” là dove questa si forma, che è un modo più efficiente di pedaggi indifferenziati (e oggi le tecnologie rendono semplice questa soluzione). In questo modo finirebbe anche la dicotomia artificiale tra reti autostradali e il resto della viabilità.
Veniamo ora al raddoppio della linea ferroviaria Pescara-Roma. La prima osservazione è che qui non esistono problemi finanziari solo perché, come per tutte le ferrovie, i contribuenti pagano, oltre a tutti i costi di investimento, anche buona parte dei costi di manutenzione (e anche parte di molti servizi ferroviari). E i contribuenti non protestano mai: non lo sanno, anzi sono convinti che FSI faccia profitti.
La linea è lunga 240 km circa, a singolo binario, molto tortuosa, e quindi lenta.
Il progetto prevede costi di investimento di oltre due miliardi di Euro (a preventivo; a consuntivo si vedrà). Si raddoppia tutto, ma per la tratta più montagnosa è prevista a una galleria di 18km a semplice binario, lasciando in esercizio la linea esistente. Si assume cioè che la galleria sarà utilizzata in regime alternato dai treni di lunga distanza (questo dà un’idea del modesto traffico previsto).
Ora, come si fa (in tutto il mondo) a decidere su una infrastruttura tutta a carico dello Stato sia un buon uso delle risorse pubbliche o uno spreco di soldi? Si usa l’analisi costi-benefici sociali (ACB), e si misura, con parametri internazionali, se i benefici sociali superano i costi. Anche in Italia si fa così, perbacco! Ma da noi si vuole essere ben sicuri di avere sempre risultati positivi, per cui si fanno fare le analisi a chi è destinatario dei fondi, cioè le ferrovie stesse (FSI). Che infatti, guarda caso, non dicono mai di no. Ma neanche mettono dubbi: i risultati sono sempre eccellenti.
Anche per la linea Roma-Pescara sono eccellenti, peccato che quei calcoli siano indifendibili. La prassi internazionale, ma anche di buon senso, prevede che si sia molto prudenti, per l’ovvia ragione che i costi sono certi e vicini, e i benefici sono incerti e lontani. Qualsiasi investitore privato si comporterebbe così. Ma si tratta di soldi suoi. Qui invece parliamo di soldi pubblici, forse regalatici da altri paesi europei con meno buchi nei conti di noi. Occorre più coraggio!
In particolare FSI dimentica di prevedere imprevisti sui costi di investimento (la prassi internazionale richiede almeno il 10%, anche perché analisi ex-post di investimenti ferroviari hanno verificato uno sforamento medio del 45%). Dimentica anche di calcolare i costi ambientali “da cantiere”, tutt’altro che trascurabili. Dimentica di calcolare le perdite fiscali dello Stato dal ridotto traffico automobilistico. Dimentica di tener conto che la spesa pubblica, anche la più efficiente, ha degli impatti negativi (tecnicamente noti come “costo-opportunità marginale dei fondi pubblici”, variabili fino al 30% della spesa). Introduce dei benefici che nella letteratura internazionale non esistono (per dare un’idea della loro assurdità, esisterebbero anche se parte dell’utenza della linea non viaggiasse affatto).
BRT onlus sta facendo un auditing indipendente per questa linea, e solo da alcune delle ovvie considerazioni esposte sopra emerge che i benefici netti per la collettività passerebbero da circa + 500 milioni di Euro circa a – 400. (L’auditing completa sarà pubblicata appena pronta sul sito di BRT).
Il decisore politico può certo poi non tener conto dei risultati delle analisi socioeconomiche. Ma certo non è accettabile che le faccia fare al destinatario dei fondi.
Come concludere? Forse la formulazione più sintetica è che le autostrade in concessione sono un dispositivo finalizzato a toglier soldi agli utenti (felici di pagare), e le ferrovie a toglierli ai contribuenti (più di 10 miliardi all’anno, per l’esattezza, e chi paga non sa).