Politiche verdi perché valutare costi e benefici
Le politiche di riduzione delle emissioni hanno benefici incerti, ma costi prevedibili molto alti
Un muro verso il quale l’umanità corre velocemente. Dobbiamo fare tutto quanto necessario per evitare di andare a sbattere e farci molto male. Considerata la velocità con la quale stiamo procedendo, è necessaria una rapidissima frenata. L’ostacolo è rappresentato dalla soglia di incremento di temperatura media della Terra di 1,5 °C che, a detta di moltissimi, non dovrebbe essere superata, whatever it takes. Ma è davvero così? A leggere i documenti dell’Ipcc così non parrebbe. Nel Rapporto di valutazione pubblicato nel 2014, gli effetti negativi dei cambiamenti climatici per un incremento di temperatura di 2,5- 3 gradi sono stimati pari a una quota della ricchezza mondiale inferiore al 3%. Come termine di paragone, gli effetti negativi di un secolo di cambiamento climatico sono equivalenti a quelli di un anno di recessione economica. Nel più recente Rapporto del 2018 si sostiene che in uno scenario di no-policy al 2100 si registrerebbe un incremento di temperatura di 3,66 gradi in corrispondenza della quale l’impatto negativo risulterebbe dell’ordine del 2,6% del Pil mondiale. Si dirà che il Pil non è tutto. Vero, non è tutto ma è molto. La crescita della ricchezza è strettamente correlata con l’evoluzione positiva di una serie di parametri che determinano le condizioni di vita. Non a caso, negli ultimi 30 anni nel mondo sono stati compiuti progressi notevolissimi sull’aumento della speranza di vita e sulla riduzione della mortalità infantile, sull’accesso all’istruzione e, sul fronte ambientale, di disponibilità di acqua non contaminata e di miglioramento della qualità dell’aria. Ma non solo non vi è alcuna solida evidenza di un aumento della frequenza dei fenomeni estremi ma, da decenni ormai, grazie alla crescita della ricchezza e delle conoscenze scientifiche, il numero di persone che muoiono a causa di tali fenomeni si è drasticamente ridotto in termini assoluti e ancor più, considerato l’aumento della popolazione, è diminuito il rischio individuale. Per comprendere come la capacità di difenderci dal clima sia oggi nettamente superiore al passato è sufficiente confrontare gli effetti di due uragani di uguale intensità in un Paese ricco e in uno povero. Il fatto che la fine dell’umanità non sia alle viste non è ragione sufficiente per non intervenire (UE e USA da anni stanno riducendo le emissioni) soprattutto come “copertura assicurativa” degli esiti più negativi, seppure improbabili, dell’evoluzione del clima. Va fatto con ragionevolezza e non in preda al panico; diversamente c’è il rischio che la brusca frenata porti fuori strada e arrechi danni superiori a quello che intendiamo evitare. Dovremmo valutare, come per qualsiasi altra politica, quali sono i costi e i benefici. E i costi di politiche di radicale riduzione delle emissioni in un breve arco di tempo sono senza dubbio elevati. Un recente studio stima al 4% l’incremento delle persone che vivono in condizioni di povertà come conseguenza delle azioni necessarie per rispettare l’accordo sul clima di Parigi. L’incertezza relativa ai benefici di politiche di riduzione delle emissioni può portare a valutazioni diverse in merito a quello che debba essere il sentiero ottimale da percorrere. Tutti, invece, dovremmo convenire che le risorse impiegate dovrebbero essere allocate in modo tale da massimizzare i risultati. Se non seguiamo questo banale principio gli esiti non possono che essere due: a parità di risorse impiegate, una minore riduzione delle emissioni oppure maggiori costi a parità di risultato. Eppure, spesso ci comportiamo in questo modo. L’approccio finora perseguito sia a livello europeo che italiano è quello di definire obiettivi di riduzione per settore e poi implementare una pletora di misure di incentivo e divieto. Questo approccio, assai apprezzato da burocrati e portatori di interessi – che grazie ad esso possono conseguire elevati profitti sulle spalle dei contribuenti – fa sì che il costo sopportato per tonnellata di CO2 evitata sia diverso da caso a caso. È questa la ragione per cui sarebbe auspicabile l’adozione di una carbon tax omogenea per tutti i settori e la contemporanea soppressione di tutte le altre forme di regolazione. Sarebbero in questo caso produttori e consumatori a modificare le proprie scelte in modo efficiente. Occorre peraltro ricordare che le modifiche di comportamento non potranno che avere un impatto molto limitato sull’evoluzione del clima. La quota parte di emissioni riconducibile all’Ue è scesa nell’ultimo quarto di secolo dal 20% al 10%. Provvedimenti “locali” sono quindi quasi irrilevanti. E, a maggior ragione lo sono, quelli con effetti marginali come, ad esempio, le misure volte a favorire lo spostamento della domanda di mobilità dal trasporto su gomma a quello su ferro. Una politica perseguita da almeno tre decenni senza risultati di rilievo. Aumentare ulteriormente in nome della sostenibilità, come ha deciso di fare la Germania nel giubilo dell’ex monopolista pubblico e leader incontrastato del settore, l’ingente flusso di risorse per il settore significa non avere compreso quali sono i termini del problema. O, più probabilmente, averli chiari ma considerare la protezione del clima non un fine quanto un mezzo per poter tassare di più e spendere di più. Anche quando, come nel caso dell’auto, il prelievo fiscale è già elevato. Per ogni tonnellata di CO2 generata dal consumo di benzina lo Stato introita oltre 400 euro a fronte di un costo esterno che ammonta a meno di 40 euro secondo le stime dell’Agenzia della protezione dell’ambiente statunitense e a 100 per l’Ue. Destinando un decimo degli introiti per il finanziamento di interventi di riduzione delle emissioni in altri settori, l’impatto netto dell’intero settore della mobilità terrestre sarebbe azzerato.
Francesco Ramella Da Il Fatto Quotidiano, 23 Ottobre 2019