12 novembre 2024

di Marco Ponti

Cos’è il modello Rab

I due recenti “documenti strategici” europei, uno di Mario Draghi, più esteso, e uno di Enrico Letta, presentano un capitolo dedicato alle infrastrutture, con particolare attenzione a quelle dei trasporti.

Nei contenuti si differenziano su diversi aspetti, ma coincidono nel raccomandare il “modello Rab” per quanto concerne l’attrazione di capitali privati nel finanziamento delle infrastrutture.

Parlare di un “modello Rab” non è chiarissimo, perché quell’acronimo sta per “Regulatory Asset Base”, e nessuno dei due autori fornisce ulteriori dettagli tecnici.

Con quella “base” di solito si intende solamente la definizione delle attività di un’impresa che devono essere soggette a regolazione pubblica, perché non possono essere messe in concorrenza come altre, in quanto hanno caratteristiche di “monopolio naturale” (o legale).

Spesso infatti imprese monopolistiche di questo tipo esercitano anche attività esponibili alla concorrenza, sulla natura delle quali a volte sorgono contenziosi. Si pensi ai servizi ferroviari esercitati sulla rete, o a compagnie aeree che talvolta controllano aeroporti, o ai servizi di rifornimento e ristoro sulle autostrade. Ma anche agli operatori telefonici o elettrici rispetto alla rete fissa di distribuzione.

La regolazione dei monopoli naturali (pubblici o privati in concessione) consiste principalmente nel fissare tariffe efficienti, cioè tali da tutelare gli utenti, consentendo solo il recupero dei costi, pur mantenendo meccanismi incentivanti per i concessionari.

Tra i costi efficienti sono ovviamente considerati anche quelli del capitale impiegato (Wacc, Weighted Average Capital Cost).

Il modello di gran lunga dominante è quello del “price cap”, incentivante per il concessionario in quanto consente di fare profitti al di sopra del Wacc per un periodo limitato nel tempo, noto come “regulatory lag”. Tali profitti possono essere generati da una riduzione di costi di gestione rispetto a quelli stabiliti come efficienti dal regolatore per il periodo considerato e, a volte, anche da livelli di domanda superiori alle previsioni, quando questa sia influenzabile dalle azioni del concessionario. Quando cioè è considerata un “rischio proprio”.

Al termine del “regulatory lag”, spesso dell’ordine di cinque anni, scatta il “claw back”, cioè il regolatore “simula” un mercato concorrenziale, stabilendo il trasferimento a favore degli utenti dei risultati raggiunti, se positivi con una riduzione delle tariffe, se negativi con la tutela del concessionario, aumentando le tariffe rispetto a quelle programmate.

In altre parole, il concessionario può fare sia extraprofitti sia subire perdite, ma solo per un periodo limitato nel tempo.

Il “modello Rab” citato da Draghi e Letta significa con ogni probabilità proprio quanto si è descritto sopra. È l’approccio più diffuso tra quelli noti in generale con il termine “project financing”.

Investimenti senza rischi commerciali

Tutto chiaro e condivisibile? No, perché nel testo di Draghi si esplicita che questo approccio deve essere finalizzato ad attirare i capitali privati a investire in infrastrutture, togliendo loro il rischio (è usato il termine “de-risk”). E c’è da supporre che Letta intenda la stessa cosa.

Togliere il rischio significa garantire di recuperare sempre tutti i costi, compreso il Wacc, cioè di non subire perdite, quale che sia l’efficienza del concessionario (o l’andamento della domanda, se considerato un “rischio proprio”).

Gli investitori privati potranno solo guadagnare, e questo sembra essere l’essenza del “de-risk”.

C’è solo da sperare che questo riguardi solo i rischi di domanda (i cosiddetti “rischi commerciali”), non quelli di superamento dei costi di investimento previsti (i rischi industriali), altrimenti sarebbe un arretramento netto anche rispetto ai rischi che si assumono i privati nelle normali gare di appalto per la sola costruzione di infrastrutture.

Garantire un rendimento comunque positivo incentiva anche ad aumentare i costi di investimento (“gold plating”): se è difficile fare extraprofitti, meglio comunque aumentarli in valore assoluto.

Ma togliere i rischi di domanda non significa cancellarli, significa accollarli allo Stato. Ovviamente, le infrastrutture sono considerate molto rischiose, altrimenti il problema non si porrebbe. Cioè, si pensa che sia molto probabile di avere costi pubblici più alti di quelli previsti, in relazione all’andamento della domanda.

Da un lato, questi “costi occulti” renderebbero poco trasparente la scelta dei progetti, inducendo a sovrastimare il traffico previsto (lo Stato fungerebbe comunque da “pagatore di ultima istanza”). La sovrastima vale anche per i benefici (legati alla domanda).

Si creerebbe così un incentivo ulteriore a costruire opere di dubbia utilità. E non sembra essercene bisogno, data la propensione politica a privilegiare investimenti a fini di consenso, come dimostrato da una vasta letteratura.

Senza garanzie pubbliche, per progetti con rischi commerciali elevati, il Wacc diventerebbe molto alto, incamerando un “premio di rischio”.

Ma se l’affidamento a investitori privati avvenisse in gara, come è auspicabile, il valore del Wacc che emergerebbe dal mercato sarebbe un ottimo misuratore dei rischi reali del progetto sul lato della domanda, e quindi anche dei benefici sociali attesi. Questi rischi sarebbero più difficili da occultare da parte di decisori politici compiacenti.

Un elevato costo del capitale a sua volta ridurrebbe il numero dei progetti finanziabili in toto con le tariffe, in particolare per il settore ferroviario, che vede i risultati in termini di traffico mediamente molto lontani dalle attese. Ciò ovviamente non esclude che per motivi sociali, in molti progetti infrastrutturali, lo Stato si impegni a intervenire a fondo perduto.

Il processo di attrazione dei capitali privati diverrebbe più trasparente, mantenendo il rischio di copertura finanziaria per via tariffaria a carico dei privati solo per una quota dei costi di investimento. Se il rischio commerciale rimanesse elevato, questo approccio non ridurrebbe il Wacc, ridurrebbe solo la quota di costi da coprire per via tariffaria. Attirare i privati accollando interamente i rischi commerciali allo Stato significherebbe invece creare rendite a spese dei contribuenti.