18 gennaio 2024
di Marco Ponti
In Europa la più significativa spinta all’innovazione dei veicoli stradali è avvenuta per ragioni ambientali: dal 2035 in poi non si potranno più produrre veicoli azionati da combustibili fossili (cioè neppure veicoli ibridi).
Una innovazione non paragonabile a altre, nei cento anni dall’avvento della motorizzazione di massa: cambia la fonte di energia.
Questa politica ha certo incentivato l’uscita di molti nuovi modelli elettrici, e ha generato necessariamente grandi investimenti sulle tecnologie esistenti, anche per raggiungere minime economie di scala.
Non sembra essere stata prevista però la conseguente necessità di ammortizzare questi investimenti, cioè il “congelamento” delle tecnologie relative. Infatti, dovendo investire molto in tempi limitati, nessun produttore si è avventurato in tecnologie non collaudate.
Tuttavia le dimensioni della produzione non sembrano comunque a essere state sufficienti a realizzare veicoli economici.
Questo anche perché l’industria, nei paesi occidentali, ha puntato su veicoli accessoriati e costosi, per sfruttare la disponibilità a pagare di una minoranza interessata alla novità tecnologica della propulsione elettrica, oppure mossa da motivazioni ambientali. Ed i sussidi all’elettrico nei paesi occidentali non sono stati nel complesso molto elevati, e soprattutto non son stati legati a tipologie di veicoli più economici.
La Cina molto spregiudicatamente invece ha da subito sovvenzionato pesantemente la propria nascente industria automobilistica, anche sfidando la normativa internazionale sulla concorrenza (cfr. L’Economist del 12 gennaio 2024). E oggi produce veicoli elettrici a una frazione del costo dei paesi occidentali (in Cina si vendono automobili elettriche anche a 12.000 dollari), ed è leader indiscusso per la produzione di batterie.
Sono sorte moltissime imprese che producono veicoli elettrici, con una competizione feroce, e ne rimarranno vitali solo un numero limitato, le più efficienti.
L’industria dei paesi occidentali rischia così di perdere la grande occasione offerta da una delle caratteristiche della propulsione elettrica: la possibilità di avere costi inferiori a quelli dei veicoli endotermici. L’altra ovvia caratteristica è legata ai benefici ambientali, soprattutto se l’energia elettrica non fosse più prodotta da fonti fossili).
I costi potenzialmente inferiori sono legati al molto minor numero di parti mobili dei veicoli elettrici, che riguardano sia il propulsore (le batterie non hanno parti mobili) che la trasmissione (di fatto, non occorre il cambio di velocità).
Dunque oggi la Cina è pronta a servire i mercati dei paesi meno sviluppati, dai quali emergerà la maggior domanda futura di veicoli stradali. La maggiore industria di quel paese, BYD, ha recentemente superato la giapponese Toyota come maggior esportatore mondiale di automobili, in particolare elettriche. Ha superato anche la Tesla, che pure ha uno stabilimento in Cina.
Per fortuna da questa spregiudicata politica cinese l’ambiente ne trarrà molti benefici ovunque, perché sarà difficile (e miope) per i paesi occidentali sbarrare la strada a veicoli con prezzi tali da accelerare la conversione all’elettrico anche in casa propria.
Senza dimenticare che una parte rilevante dei costi di questa accelerazione sarà stata pagata direttamente o indirettamente dai contribuenti cinesi.
Non solo: la minaccia della penetrazione di veicoli elettrici a basso costo può accelerare una analoga conversione dell’industria europea e americana.
Infine, gli impatti occupazionali negativi della penetrazione cinese potranno essere attenuati da due fenomeni: l’insediamento di fabbriche cinesi nei paesi occidentali (già all’orizzonte, in vista dello sbocco dei loro prodotti), e gli effetti dello spostamento di parte della spesa per il bene “automobile” verso altri settori produttivi domestici.
Una strategia alternativa ai sussidi all’elettrico per i paesi occidentali può essere in primo luogo quella di determinare una “carbon tax” sulle fonti fossili tale, notoriamente la forma più efficiente di politica ambientale.
Come “second best” è possibile puntare genericamente su standard di emissioni molto stringenti, cioè tali da ottenere risultati di decarbonizzazione del parco veicolare non molto diversi dall’elettrificazione.
Questo al fine di lasciar poi libera l’industria di seguire strade alternative per rispettarli, quali l’idrogeno, o l’abbattimento ulteriore delle emissioni della propulsione endotermica, o lo sviluppo commerciale di combustibili “verdi”, rilevanti anche per il settore aereo.
Certo occorrerà un po’ di “fortuna tecnologica” per rallentare l’avanzata cinese nel settore dei veicoli a batteria.
Comunque l’Italia brilla in Europa per l’inadeguatezza della rete di ricariche per la propulsione elettrica, quindi rischiamo anche di non essere in grado di sfruttare gli aspetti positivi di una probabile “invasione cinese”, soprattutto dal punto di vista ambientale, ma anche nell’indotto specifico che comunque il nuovo tipo di propulsione genererà.