È forse giunto a conclusione il confronto/scontro durato per quasi tre decenni sul nuovo collegamento ferroviario Torino – Lione. L’opera, seppur ridimensionata rispetto al progetto iniziale, si farà. Resta l’incognita sui tempi e, soprattutto, sui costi di realizzazione. Stando alla narrazione largamente prevalente sui mezzi di informazione, il via libera rappresenta un tassello importante per una crescita economica sostenibile del Piemonte e dell’Italia: un tassello di un puzzle molto più ampio in verità che ingloba tutto il settore del trasporto su ferro. L’aspra dialettica sul tav rappresenta quasi un’eccezione alla regola che vede tutte le forze politiche senza distinguo alcuno, schierate a favore di un massiccio impegno di risorse pubbliche a sostegno della gestione e dello sviluppo delle ferrovie. Si tratta di una opzione assai radicata, quasi una variabile indipendente della politica dei trasporti italiana ed europea che non muta al cambiare delle maggioranze governative. Aveva visto giusto Giulio Andreotti quando scriveva che: “i pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato”. Si dirà: ma da alcuni anni le FS non sono più in perdita ma chiudono il bilancio con un modesto profitto. Vero, ma se dal piano formale passiamo alla sostanza, pur senza voler negare i recuperi di efficienza conseguiti negli ultimi lustri, vediamo come ancora oggi l’azienda assorbe ingenti risorse pubbliche. Si tratta approssimativamente di poco meno di dieci miliardi all’anno. La cumulata dei trasferimenti nell’ultimo mezzo secolo ha generato una quota non lontana da un quinto del debito pubblico. Se le ferrovie si fossero rette solo sulle entrate commerciali avremmo potuto risparmiarci una manovra correttiva ogni tre o quattro anni. Vale dunque la pena chiedersi che cosa i contribuenti italiani hanno avuto in cambio: quale sia il “dare” a fronte di questo cospicuo “avere”. Sono state risorse ben impiegate? Qualche dubbio potrebbe sorgere se si considera l’esiguità della quota di mercato del trasporto su ferro. Se guardiamo ai passeggeri, fatto pari a cento il totale dei chilometri percorsi dagli italiani in un anno, solo sei vengono effettuati su un treno. E se guardiamo al numero di spostamenti – quelli in treno sono mediamente su distanze maggiori – la quota scende al 3% circa.

Si tratta di poco più di un segmento di nicchia della mobilità. Il vero servizio universale , quello che potremmo paragonare al servizio sanitario nazionale per la salute, è rappresentato dall’auto che detiene una quota superiore all’80% delle percorrenze. Si tratta di percentuali sostanzialmente invariate da tre o quattro decenni. E, contrariamente a quanto spesso si afferma, l’assetto italiano è del tutto sovrapponibile a quello degli altri Paesi europei: in media nella UE28, l’81,3% della mobilità terrestre è appannaggio del trasporto individuale su strada.

Nonostante gli oltre 30 miliardi destinati alla realizzazione delle tratte ad alta velocità, tra il 2000 e il 2016 la domanda di mobilità soddisfatta dalla ferrovia è cresciuta di un modesto 5% soprattutto a causa del rapido declino del traffico di lunga percorrenza sulla rete ordinaria.

Ancor più marginale è il ruolo della ferrovia per il trasporto merci. Le statistiche più diffuse fanno riferimento al peso delle merci trasportate; si tratta però di una misura assai poco significativa sia in termini economici che di utilizzo delle infrastrutture di trasporto. Se guardiamo, come facciamo abitualmente per gli altri ambiti economici, al fatturato delle imprese scopriamo che quello delle imprese ferroviarie è al di sotto dei 2 miliardi a fronte dei 90 miliardi della gomma. E così se guardiamo ai flussi di traffico: i 20 miliardi di tonnellate-km trasportati su ferrovia equivalgono a un traffico stradale di circa 1,5 miliardi di veicoli pesanti a fronte di flussi complessivi di mezzi pesanti sulla rete dell’ordine dei 70 miliardi.

Tornando a occuparci di passeggeri, si può notare come il Paese europeo nel quale le ferrovie hanno fatto segnare il più rapido progresso sia il Regno Unito: dai 38 miliardi di passeggeri-km del 2000 si è passati ai 68 miliardi con una crescita che sfiora l’80%. Dato ancor più rimarchevole se si pensa che Oltre Manica l’unica tratta ad alta velocità è quella che collega Londra con il tunnel sotto la Manica e che nell’ultimo decennio i trasferimenti netti per i servizi di trasporto sono stati azzerati. A differenza di quanto accade nel nostro Paese, la maggior parte di coloro che si servono del treno lo fanno dunque a proprie spese e non gravando sulle tasche dei contribuenti sui quali ricade “solo” l’onere per la manutenzione e l’ammodernamento delle infrastrutture); ne è chiara testimonianza il fatto che le tariffe medie pagate nel Regno Unito sono di molto superiori a quelle italiane.

Una diversa politica dei trasporti sembra dunque essere possibile. Ma è anche auspicabile per la collettività? Un Paese (quasi) privo di alta velocità cresce meno di uno che se ne sia dotato? E quali solo le ricadute sotto il profilo sociale: sussidiare i trasporti su ferro comporta trasferimenti di risorse a favore delle fasce di popolazione a minor reddito o no? E, infine, l’ambiente: quale legame sussiste tra spesa per le ferrovie e sostenibilità ambientale?

Interrogativi centrali che meritano un approfondimento anche perché il nuovo esecutivo sembra intenzionato a riproporre una cura del ferro agli steroidi archiviando così di fatto la brevissima stagione della valutazione degli investimenti.

Francesco Ramella

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *