20 febbraio 2021
di Francesco Ramella
Identità di Kaya. È il nome che gli studiosi hanno attribuito alla formula che permette di esprimere il livello di emissioni di CO2 di un paese. Compaiono nella espressione quattro parametri: il reddito pro-capite, il numero di abitanti, l’intensità energetica ossia il rapporto tra energia consumata e Pil prodotto, e l’intensità di carbonio data dal rapporto tra emissioni di anidride carbonica ed energia prodotta.
Si possono ridurre le emissioni facendo calare il Pil o con il declino demografico. Se scartiamo queste due opzioni e se riteniamo auspicabile che il reddito disponibile cresca e che le nascite superino i decessi, non resta che agire sulle altre variabili: consumare meno energia per unità di Pil prodotta e/o produrre energia con minore contenuto di carbonio.
A fronte di significativi progressi compiuti nel campo della produzione di energia, la CO2 prodotta da auto, aerei, treni e navi, dopo alcuni anni di flessione causati dalla recessione del 2008, ha ripreso a crescere e, prima del Covid, era solo di poco inferiore al massimo di sempre.
Per un dato livello di mobilità è possibile ridurre l’impatto ambientale in due modi: per via tecnologica, facendo sì che per ogni chilometro percorso un’auto, un camion o un treno inquinino meno oppure spostando una parte della domanda dai modi di trasporto più inquinanti a quelli che lo sono meno.
L’Unione europea nei tre decenni alle nostre spalle li ha promossi entrambi. Il primo si è rivelato per gli inquinanti dell’aria uno straordinario successo, l’altro un completo fallimento.
A partire dagli anni Settanta sono state introdotte regolamentazioni via via più severe su carburanti e dispositivi di abbattimento dei gas di scarico dei veicoli. Una strada non priva di passi falsi come la vicenda del Dieselgate che però ha consentito di abbattere le emissioni per chilometro percorso dei principali inquinanti dell’aria in misura superiore al 90 per cento.
Tale risultato equivale, a transizione completata ovvero con tutto il parco veicolare a norma Euro 6, a quello che si sarebbe ottenuto riducendo della stessa percentuale le percorrenze dei veicoli sulle strade. Particolare non trascurabile: i costi sono stati a carico degli automobilisti e non del bilancio pubblico.
In assenza dell’innovazione tecnologica, essendo andato a vuoto il tentativo di trasferire una parte degli spostamenti sui trasporti collettivi, l’aumento della mobilità avrebbe portato all’esito opposto. Non è immaginabile un esito diverso nel caso della CO2.
Le emissioni totali del settore dei trasporti in Italia nel 2018 sono risultate pari a 104 milioni di tonnellate di cui 96 attribuibili al trasporto su strada.
Ora, immaginando che nei prossimi due decenni il traffico merci su ferrovia raddoppi – nei trenta anni passati è rimasto invariato nonostante tutti i ministri succedutisi alla guida del dicastero dei trasporti abbiano promosso il “riequilibrio modale” – le emissioni del trasporto su gomma si ridurrebbero di poco più di un milione di tonnellate, l’1 per cento del totale.
Oppure, supponiamo che gli spostamenti effettuati in metropolitana raddoppino e che tutti i nuovi viaggi siano fatti da persone che prima utilizzavano l’auto. Anche in questo caso le emissioni si ridurrebbero di poco più dell’1 per cento senza contare quelle aggiuntive dovute alla costruzione delle gallerie che richiederebbero molti anni solo per essere compensate.
Il livello di dotazione di trasporti collettivi di massa che in Italia è inferiore rispetto a quello degli altri paesi, è quindi una variabile poco rilevante come reso evidente dal fatto che le nostre emissioni pro-capite sono inferiori a quelle di tutti gli altri Stati dell’Europa occidentale ad eccezione di Portogallo e Grecia.
La ragione è da ricercarsi nel minor livello di reddito e in una più alta pressione fiscale sui carburanti, fattori che hanno portato ad una composizione del parco veicolare “più sobria”.
Non saranno dunque nuovi investimenti o maggiori sussidi ai trasporti collettivi a modificare significativamente gli equilibri esistenti né a livello nazionale né, tanto meno, globale, l’unico rilevante per il problema del cambiamento climatico. Stando alle stime dell’Ocse, la quota di mobilità delle persone dei Paesi che appartengono all’organizzazione scenderà dal 54 per cento del 2000 al 22 per cento del 2050 e quella delle merci dal 52 per cento al 31 per cento.
Il nostro contributo alla transizione ecologica non sarà dato, se non in misura trascurabile, da quello che faremo in Italia ma da quanto saremo in grado di offrire a tutto il mondo in termini di ricerca scientifica, innovazione e poi produzione industriale per realizzare veicoli con emissioni sempre più basse oppure per rendere sempre più efficiente e meno costosa la cattura delle stesse.
Su questo dovremmo concentrare le risorse del Recovery Fund. Meno cemento, meno ferro e più cervello.