Un bene comune si può definire, per seguire il linguaggio corrente, ciò che la collettività vuole sottrarre alle logiche del mercato. Per gli economisti è una cosa diversa, e questo può dar luogo ad equivoci, per cui chi scrive preferirebbe il termine “bene sociale”, per chiarezza. Per intenderci, il sistema giudiziario per gli economisti è un bene comune, mentre i trasporti collettivi non lo sono, ma si può decidere comunque che siano un bene sociale, come moltissimi altri. Manteniamo qui però la dizione “bene comune”.
Per i beni comuni dunque occorre che prezzi, quantità e qualità siano frutto di decisioni collettive, non del canonico equilibrio tra domanda e offerta.
Ma le risorse sono limitate: quelle che vengono destinate ad un bene comune non possono essere destinate ad un altro. In generale si può assumere che meno è efficiente la produzione di questi beni, meno ce ne sarà per tutti (si pensi all’acqua pubblica perduta per scarsa manutenzione. O se l’acquedotto comunale occupa il doppio dei lavoratori necessari, o li paga il doppio per “voto di scambio”, rimarranno poche risorse per produrre altri servizi).
Si obbietta: ma se la gestione è privata, i privati devono fare profitti, cioè devono remunerare anche il capitale che ci mettono. Certo allo Stato il capitale costa un po’ meno (non c’è rischio, perché si assume che lo Stato non possa fallire, anche se su questo punto qualche rischio all’orizzonte appare…). Inoltre, a uno Stato che ha speso troppo in passato, il capitale finisce a costare molto caro (si veda lo spread, che questo in realtà significa).
Ora, affidare servizi attraverso un sistema di gare significa in sostanza chiedere: “Chi mi fornisce questo servizio per x anni, con queste tariffe e garantendo questa qualità e quantità?”. Chi chiederà meno soldi vincerà la gara (e nel “meno soldi” c’è anche implicito “si accontenterà anche della minor remunerazione del capitale”).
Il rischio di corruzione? C’è sempre, anche nelle gestioni pubbliche. Ma con le gare arrivano addirittura due poliziotti: la guardia di finanza e i concorrenti, che spesso fanno addirittura fastidiosi ricorsi. Con le gestioni pubbliche spesso non c’è nemmeno il primo.In altre parole: la socialità di un bene o di un servizio non è data da chi lo produce (si pensi ai farmaci), ma, come abbiamo detto, dai prezzi e dalla qualità con cui sono forniti ai cittadini. Anche distinguendoli per classi di reddito, se così si ritiene.
Le gare certo devono essere periodiche: un vincitore, pubblico o privato, che fosse messo per sempre al riparo della concorrenza diventerebbe di sicuro inefficiente (“catturerebbe il regolatore” dicono gli economisti. Inoltre, i soggetti privati senza concorrenza sono peggio dei pubblici).
Le gare poi non hanno niente a che vedere con la privatizzazione dei servizi: questo è un argomento davvero stupefacente. Se un soggetto pubblico, anche quello che fornisce il servizio oggi, è più efficiente (per esempio non fa “voto di scambio”), vincerà la gara. Sempre per esempio, in Germania nei trasporti ferroviari locali qualcosa di questo tipo è successa molte volte, e in modo clamoroso: le ferrovie pubbliche (DB) hanno perso molte gare al primo turno, si sono spaventate e sono diventate più efficienti, e ne hanno poi rivinte indietro molte al secondo turno, con grandi benefici per tutti.
Pensare “gara uguale privatizzazione” invece assume ingiustamente che i manager pubblici debbano essere sempre più incapaci o corrotti di quelli privati. La sanità in Italia ha ottimi esempi del contrario.
Abbiamo già dimostrato poi che le gare non hanno nulla a che vedere nemmeno con la socialità dei servizi. Se ci sono le risorse, si possono (anzi, si devono) far gare anche per servizi gratuiti ed estesi a tutta la popolazione. Vincerà, come si è detto, chi chiederà meno soldi pubblici. E tenderà a “rigar dritto”, altrimenti si sogna di vincere al secondo turno. Per un’impresa degna di questo nome, la reputazione è un bene molto prezioso. Ai monopolisti invece di questo non importa nulla.
Per concludere, si ricorda che esistono due tipi di concorrenza: quella “nel” mercato (liberi tutti…) e quella “per” il mercato, cioè le gare periodiche di affidamento, che può garantire qualsiasi livello di socialità. In Italia per la maggior parte dei servizi si parla solo del secondo tipo, ma ipocritamente si gioca sull’ignoranza del pubblico per fingere si tratti di vere “liberalizzazioni antisociali”.
Una controprova della realtà qui sommariamente illustrata: sono uniti nell’ostilità alle gare sia le amministrazioni di destra che quelle di sinistra. La motivazione è proprio che non la qualità e i costi dei servizi interessa, ma il controllo politico ed economico sugli enti che li erogano, in cui il voto di scambio impera, generando grandi inefficienze a danno dei cittadini e dei contribuenti.
Infine, lo slogan d’obbligo, che speriamo di aver argomentato: “Più gare, più beni comuni”.
Marco Ponti