24 giugno 2024

di Marco Ponti

In un articolo per il Corriere della Sera che risale al 1914[1], ma che risulta di straordinaria attualità, il grande economista piemontese faceva una disanima accurata dei conti ufficiali presentati dalle Ferrovie dello Stato, a quell’epoca ancora relativamente fresche di nazionalizzazione, iniziata nel 1903 (e portata a termine poi nel 1915).

Denuncia come un risultato contabile ufficiale delle Ferrovie dello Stato mascherasse una realtà industriale ben diversa, e anzi di segno opposto: si passava da un modesto attivo di bilancio a una sostanziale perdita.

Il calcolo è basato sulla omessa valutazione dei costi di capitale, sia in termini di ammortamenti che di mancata redditività. Si articola in tre scenari: un primo in cui si presentano i risultati ufficiali, positivi, un secondo in cui si contabilizza solo la parte più recente dei costi di capitali omessi (e mostra un peggioramento dei risultati), ed un terzo che, considerando la totalità degli investimenti, mostra la loro inversione.

L’autore non disponeva allora dell’impianto teorico dell’economia del benessere, ed in particolare del concetto di “surplus sociale”, che entrerà in uso solo dopo la crisi economica mondiale del 1929 e le politiche di spesa keynesiane, che postulavano estesi progetti di infrastrutturazione.

A loro volta questi progetti pubblici avevano la necessità di strumenti di valutazione che consentissero di evidenziare dimensioni economiche incidenti sul benessere collettivo, ma non espresse direttamente dal mercato, quali ad esempio i risparmi di tempo di viaggio per viaggiatori e merci, o l’aumentata redditività agricola consentita in anni futuri da una migliore irrigazione, e altri fenomeni simili.

(Ovviamente costi e benefici ambientali poi non erano nemmeno nell’orizzonte logico dei valutatori).

Nasceva l’analisi costi-benefici, concettualmente definita un secolo prima dall’inascoltato pioniere francese Dupuit, e applicata per la prima volta in pratica per gli investimenti della Tennessee Valley Authority promossa dal presidente Roosevelt.

Einaudi comunque incentra la sua analisi su due principi che rimangono di sostanziale attualità: il primo è la necessità di trasparenza per la contabilità pubblica (“conoscere per deliberare” era un suo celebre motto).

E le ferrovie attuali, anche se formalmente private (sono una società per azioni, e quindi sottostanno alla stessa normativa delle società private), sono in realtà pubbliche due volte, in quanto sono al 100% possedute dallo Stato, e dallo Stato o da enti pubblici locali ricevono sia in conto esercizio che in conto capitale più del 50% dei loro ricavi.

Il secondo punto sollevato da Einaudi è più controverso, ma non eliminabile, ed è di tipo distributivo: perché l’intera collettività per via fiscale deve sopportare la maggior parte dei costi di un’impresa i cui servizi sono goduti solo da alcuni?

I servizi ferroviari non hanno caratteristiche economiche di “bene pubblico”, come la difesa o la giustizia.

Si ricorda che in termini economici  un bene pubblico comporta sia la  “non rivalità”, cioè che la sua utilizzazione da parte di qualcuno non ne diminuisca la disponibilità, sia la “non escludibilità”, cioè che nessuno singolarmente possa essere chiamato a pagare una tariffa per goderne.

Le infrastrutture hanno tuttavia la caratteristica di essere “monopoli naturali”, cioè di avere altissimi costi di costruzione rispetto ai costi di uso. Einaudi aveva ben chiaro il concetto di monopolio naturale, ma non disponeva di strumenti adeguati per trattare analiticamente forme alternative di tariffazione (cioè vantaggi e svantaggi di addossarne il costo allo Stato piuttosto che agli utenti).

Ma è sulla trasparenza complessiva della contabilità ferroviaria che questo storico articolo ha forti legami con il presente.

Per i costi e i ricavi di capitale si può prendere atto che oggi per le ferrovie gli investimenti siano puri trasferimenti pubblici, esentati per legge sia da effettuare ammortamenti che da produrre reddito, ma non appare accettabile che il peso reale di tali variabili rimanga assente in una contabilità che vuole chiamarsi industriale.

Per i costi e i ricavi di esercizio vale la stessa logica: non si può certo definire molto trasparente una contabilità in cui parte dei ricavi sia sostanzialmente generata da trasferimenti dell’azionista, ed alla fine mostri dei profitti come se tali trasferimenti non pesassero in modo sostanziale.

Sembra evidente che questi profitti, pur formalmente ineccepibili, poco o nulla abbiano a che vedere con quelli di una SpA che operi nel mercato.

Una contabilità più trasparente è precondizione per rendere più consapevoli sia i contribuenti che sopportano una quota importante dei costi dell’impresa, sia in generale i cittadini che potrebbero optare per un diverso livello dei trasferimenti, non necessariamente inferiore.

BRT lo ha fatto nel libro “L’ultimo treno”[2], mentre è forse meno noto che una brava studiosa tedesca, per avere accuratamente calcolati e pubblicati i costi reali dell’impresa ferroviaria di quel paese, abbia immediatamente perso il posto di consulente.


[1] Per il testo completo dell’articolo, si veda il sito web di BRT onlus

[2] A cura di M.Ponti e F.Ramella, ed. Paperfirst, Roma 2021