10 marzo 2025

di Marco Ponti

Nel loro recente libro post-premio Nobel (“Power and Progress”),  Daron Acemoglu e Simon Johnson sostengono con molti esempi che il progresso tecnico non è sempre socialmente benefico. E si occupano soprattutto di intelligenza artificiale.

Almeno, non lo è in modo automatico, cioè tale da accrescere il benessere complessivo, anche degli strati più deboli della società.

Portano esempi storici importanti, di cui qui ne citiamo qui solo alcuni.

Nel tardo medioevo ci furono importanti progressi tecnici, negli aratri più efficienti, nel più diffuso uso del cavallo, più efficiente del bue, nella rotazione delle coltivazioni per non impoverire i terreni, nei mulini per macinare il grano.

Si produceva di più con meno lavoratori.  Ma il benessere non si diffuse: si arricchirono molto i proprietari terrieri, ma la condizione complessiva dei contadini non migliorò molto, anzi secondo alcuni fu proprio il fatto che in Inghilterra c’erano moltissimi contadini disoccupati nel ‘700, che iniziò la rivoluzione industriale, grazie al fatto che questi costavano poco.

Il secondo esempio è ancora meglio noto: i telai meccanici, azionati dal vapore, all’inizio dell’’800 portarono ad un abbassamento dei salari, perché potevano essere manovrati da operai non specializzati, donne e ragazzi in particolare. E anche qui si produceva molto di più con meno operai.

Avevano perfettamente ragione quelli che si rivoltavano distruggendo le nuove macchine (il movimento noto come “luddismo”).

Fenomeno analogo successe per la raccolta meccanica del cotone negli USA, nella seconda metà dell’’800.

E poi ancora nel secolo scorso, l’avvento dei computer comportò inizialmente l’abbassamento relativo dei salari degli impiegati, e l’esclusione di molti lavoratori meno istruiti che non li sapevano usare.

Ovviamente gli autori constatano che complessivamente il benessere economico, dove il progresso tecnico ha avuto luogo, è aumentato moltissimo.

E qui sta il nocciolo della loro tesi, che poi è quello che ha determinato la loro conquista del premio Nobel: il ruolo assolutamente dominante delle organizzazioni politiche e sociali nel diffondere il benessere del progresso tecnico, come ha scritto recentemente su queste pagine Alessandro Penati commentando il loro libro più celebre.

Il benessere si diffonde se la tecnologia è orientata ad aumentare la produttività dei lavoratori, e non a diminuirne il numero.

Le innovazioni tecnologiche di per sé creano potere monopolistico. Gli individui o le imprese che innovano fanno il possibile per ricavare il massimo beneficio economico nello sfruttare le innovazioni, soprattutto ostacolando la loro diffusione ad altri produttori.  Cioè, aumentano per quanto possibile il grado di monopolio che l’innovazione consente.

Si oppongono alla “mano invisibile” del mercato, che tende a far sorgere concorrenti nel caso un’impresa realizza troppi profitti. Nuove tecnologie comportano barriere alla concorrenza, che devono essere limitate da azioni pubbliche che consentano di regolare l’equilibrio dei mercati.

Ma gli attori di questo equilibrio, che tutelino la diffusione dei benefici delle tecnologie, possono essere solo soggetti politici e organizzazioni di lavoratori che spingano in questa direzione.

I detentori delle tecnologie si limiterebbero a ridurre i lavoratori con l’automazione, e ha controllarli con sistemi sempre più sofisticati di sorveglianza del lavoro, quali sono ad esempio le piattaforme informatiche che gestiscono la produttività dei singoli addetti (un caso esemplare è nella logistica).

I due autori sottolineano con molta forza che questo dilemma, tra benefici diffusi da un lato, e automazione e controllo del lavoro dall’altro, riguarda in modo particolare l’avvento e la crescita dell’intelligenza artificiale (AI).

In effetti sembrano emergere due versioni molto diverse nella gestione dell’AI, quella americana dell’amministrazione Trump da un lato, e quella europea dall’altro, espressa in particolare dalla normativa della Commissione.

Quella americana non vuole alcun limite alla “libera iniziativa” nel settore. Ma se è vero che proprio il suo alto grado di innovazione, come abbiamo visto, crea situazioni di oligopolio, se non di monopolio, la “libera iniziativa” molto libera non è.

I rischi di un accrescimento del benessere solo per pochi sembrano davvero concreti, come possiamo vedere negli attuali tycoons americani del settore, ben decisi a difendere le loro quasi-rendite, anche sposando posizioni politiche certo poco interessate alla ridistribuzione del benessere alle categorie più deboli.

L’approccio europeo finora sembra essere molto più ragionevole ed articolato.

Questo aspetto del divorzio tra le posizioni europee e americane è riconducibile ai due “padri” della regolazione pubblica dei mercati, per caso entrambi americani: i giuristi del secolo scorso Louis Brandeis e Robert Bork.

Il primo sosteneva che lo Stato dovesse garantire la concorrenza già nella fase in cui questa fosse minacciata dal formarsi di monopoli, o comunque di “posizioni dominanti”, poi difficili da combattere a posteriori. La seconda invece assumeva che solo i consumatori finali dovessero essere protetti dallo Stato (per esempio, da prezzi troppo alti).  E che, se la struttura produttiva si squilibrasse a favore di pochi, la Stato non dovesse interessarsene. Ci avrebbe pensato la “mano invisibile” del mercato a diffondere il benessere.

Peccato che l’America di questi tempi sembra ricordarsi solo del secondo, dei suoi due grandi studiosi della regolazione pubblica.