26 marzo 2021
di Francesco Ramella
Sappiamo che ogni tonnellata di anidride carbonica e degli altri gas climalteranti che immettiamo in atmosfera provoca un danno netto. A quanto ammonta tale costo? Tra i primi a occuparsi del problema, fin dagli anni Ottanta dello scorso secolo, vi è stato il premio Nobel William Nordhaus il cui approccio venne fatto proprio dall’amministrazione Obama che attribuì un valore di 42 dollari per ciascuna tonnellata di CO2 generata per l’anno 2020 e crescente nel tempo fino a raggiungere i 100 dollari nel 2100.
Altri studiosi, in particolare Nicholas Stern e Martin Weitzman, hanno contestato la metodologia di Nordhaus con riferimento a due aspetti: un troppo elevato valore di attualizzazione che comporterebbe una sottovalutazione dei danni nel lungo periodo e una non adeguata valorizzazione di eventi con bassa probabilità di verificarsi ma dalle conseguenze catastrofiche. Qualora si tenga conto di questi due fattori il costo potrebbe raddoppiare o triplicare.
La corretta quantificazione del danno è essenziale per disegnare politiche di riduzione delle emissioni efficienti. Le istituzioni internazionali hanno preferito definire a monte un obiettivo da raggiungere – mantenere l’incremento di temperatura al di sotto dei 2 °C come previsto dall’accordo di Parigi – e quindi stimare l’entità degli interventi da attuare per garantirne il soddisfacimento. Non è però possibile sapere a priori se quell’obiettivo sia socialmente ottimale, ossia se minimizzi la somma dei danni arrecati dal cambiamento climatico e quella dei costi da sostenere per la mitigazione: spesso l’attenzione è focalizzata solo sul primo elemento e trascura il secondo.
Ne abbiamo avuta testimonianza nell’ambito della qualità dell’aria: l’Italia è stata condannata dalla Corte di giustizia della Ue per il mancato rispetto, soprattutto nel bacino padano, della normativa vigente. Ciò è accaduto non perché le emissioni siano più elevate che altrove ma in conseguenza delle più sfavorevoli condizioni per la dispersione degli inquinanti.
I limiti in vigore non sono stati rispettati neppure durante il lockdown della scorsa primavera. Si tratta, dunque, di limiti non rispettabili se non sopportando costi che eccedono di gran lunga i benefici. Questo non accade se si internalizzano i costi esterni ossia se si fa pagare a chi è responsabile di un dato impatto una tassa pari all’entità del danno. Se il beneficio che deriva dall’attività inquinante è minore del costo arrecato, l’introduzione della tassa ne determinerà la cessazione, in caso contrario no.
Mentre il danno provocato da una tonnellata di anidride carbonica è identico quale che ne sia l’origine geografica o settoriale, i costi di abbattimento variano in un intervallo molto ampio. Secondo una stima di Goldman Sachs, all’incirca il 10 per cento delle emissioni mondiali può essere abbattuto a costo nullo o quasi. Inizia poi la “scalata” della montagna che in vetta supera i 1.000 dollari per tonnellata.
La buona notizia è che una quota rilevante di emissioni può essere abbattuta a costi relativamente contenuti, dell’ordine di qualche decina di euro.
La cattiva è che abbiamo deciso di affrontare subito l’erta finale e, dunque, di sopportare costi che sono fino a cento volte superiori a quelli minimi e che eccedono la stima dei danni evitati.
Non tutti gli extra-costi sono ingiustificati: l’innovazione tecnologica è trainata anche dalla domanda e quindi, in una fase iniziale di sviluppo, può essere giustificato pagare un sovraprezzo. Ma in altri casi non è così.
Il record dell’inefficienza è forse quello, segnalato dall’Economist, di un progetto di cargo bike a Berlino che presenta un costo unitario di abbattimento di 50.000 euro. Ma il bilancio è molto negativo anche nel caso di incremento dell’offerta di trasporti collettivi per acquisire quote di domanda dal trasporto individuale.
Il costo pubblico per ogni persona che in precedenza utilizzava l’auto è pari ad almeno 40 centesimi per chilometro percorso. Su questa distanza un’auto emette intorno ai 200 grammi di CO2. L’onere da sopportare per tonnellata di anidride carbonica evitata si attesta intorno ai 2.000 euro ai quali vanno aggiunti i minori introiti delle accise che portano il totale sui 2.300 euro, un onere destinato a crescere con la riduzione delle emissioni dei veicoli.
Con le stesse risorse sarebbe possibile abbattere in altri settori una quantità di CO2 fino a cento volte superiore. Sembra davvero che non possano esserci dubbi su quale sia l’opzione preferibile: nel breve periodo abbattere dove costa meno e, nel frattempo, investire per ridurre costi di mitigazione che sono oggi proibitivi.