15 gennaio 2024

di Marco Ponti

Sono entrambi prodotti umani, ed entrambi lontani dagli schemi ideali di perfezione sostenuti da un paio di secoli a questa parte. Sacrosanto dunque denunciare vigorosamente i loro fallimenti e iniquità.

Iniziamo dal mercato: spesso ha vistose sacche di rendita, che nulla hanno a che fare con la meritocrazia, usata come giustificazione per le diseguaglianze di reddito.

E’ fonte di pesanti costi sociali e di drammatici costi ambientali. E’ soggetto a crisi cicliche, ed è anche un “gioco truccato”, in cui il rischio dei capitalisti di perdere il capitale è equiparato a quello dei lavoratori di perdere i propri mezzi di sussistenza.

I consumi che lo sorreggono sono pesantemente condizionati dalla pubblicità, verso la quale le categorie più deboli hanno meno difese.

Ha dimostrato però una ineguagliabile capacità di produrre ricchezza: 50 anni fa eravamo 4 miliardi, di cui 2 facevano la fame, oggi con la globalizzazione capitalista siamo quasi 8 miliardi, di cui uno fa la fame.

E l’Europa neoliberista ci ha dato 207 miliardi, certo anche per i propri interessi legati ai mercati di sbocco e a garantire il nostro megadebito pubblico, ma certo non tutti ce li volevano dare, a riprova che la logica del mercato a volte costringa alla generosità.

Ma lo Stato nei sistemi capitalistici non è molto meglio. Vengono eletti governi reazionari, a volte con venature antidemocratiche. Altre volte vengono eletti direttamente capitalisti, capaci di condizionare con i media il consenso. E a volte propensi persino all’uso delle armi, in patria e fuori. Ha anche elementi di verità la celebre frase di Marx che i governi nei sistemi capitalistici sono agenzie d’affari della borghesia.

Infatti lo Stato spesso è “catturato” da interessi particolari. Ma per fortuna in democrazia c’è un altro mercato: è quello del consenso (detto anche “mercato politico” dal Nobel James Buchanan).

Allora la “cattura” di cui si è detto avviene anche da parte di gruppi sociali “votanti”, da sindacati, da pensionati, da addetti al settore pubblico. Mille rivoli di privilegi inefficienti, ognuno con il suo “sponsor” politico. Sussidi a pioggia, con scarse possibilità di individuare un interesse collettivo.

E il monopolio corrompe anche chi ci lavora, sosteneva un signore che si chiamava Lenin.

Deficit e debito pubblico spesso diventano rampanti (che dobbiamo “servire” poi a caro prezzo), sempre mascherati da urgenze sociali, o da molto fantasiose ipotesi keynesiane “bipartisan”.

Ma lo Stato capitalista ha anche creato estese protezioni sociali per le categorie più deboli, e politiche sanitarie e scolastiche universalistiche, servendosi di una elevata pressione fiscale, che raggiunge da noi circa la metà del valore del prodotto interno lordo (PIL), con buona pace di chi parla di “regime neoliberista”. Promuove anche politiche ambientali.

Escludendo indesiderabili palingenesi sociali (“chi è padrone di tutti i mezzi decide tutti i fini”), il problema allora è far funzionare meglio Stato e mercato, se dobbiamo tenerceli.

Che fare? L’ipotesi dei liberali (non dei liberisti né dei libertari) è che è importante ridurre la capacità del mercato e di altri interessi particolari di “catturare” lo Stato e di frenare la crescita economica.

Occorre allora un “divide et impera”, è questo era anche il pensiero del padre del libero mercato, Adam Smith, che scrisse “se due o più capitalisti si trovano tra loro, anche nel tempo libero, si accorderanno contro l’interesse pubblico”, cioè si daranno da fare per ridurre la concorrenza. I capitalisti per definizione la detestano, anche se dichiarano il contrario.

Più concorrenza significa meno profitti e meno possibilità di catturare lo Stato.

Ma più concorrenza significa anche prezzi più bassi per tutti, quindi maggior produzione e occupazione, entrambe soffocate dal monopolio.

Insomma, con più concorrenza il mercato funziona meglio.

E lo Stato capitalistico risultando meno “catturabile” da interessi privati funziona meglio anch’esso. Ma dati i meccanismi di “mercato del consenso” sempre presenti in democrazia, la concorrenza può far funzionare meglio anche lo Stato rendendolo più efficiente, cioè più capace di produrre servizi sociali, e di indebitarsi meno.

Bisogna copiare dal mercato quello che lui sa fare bene, cioè creare incentivi all’efficienza. Le gare per l’affidamento di servizi pubblici sono un esempio importante, che in Europa ha funzionato bene.

Sia i politici “catturati” che le imprese pubbliche o private “catturatrici” che i loro dipendenti e fornitori detestano meccanismi di questo tipo.

Da noi le autorità regolatorie indipendenti, che dovrebbero promuovere gli incentivi all’efficienza, “mordono” poco, e la legge sulla concorrenza dovrebbe essere annuale, ma ce ne si è “dimenticati” per diversi anni, e quella dell’anno scorso di Draghi, l’orrido neoliberista, è timidissima. Ci manca la cultura specifica, molto più presente nel mondo anglosassone, perché capitalista da più tempo.

Detto questo, le ideologie rimangono, per fortuna, come pure i modelli astratti di perfezioni impossibili.  

Ma certo un capitalismo più concorrenziale, e uno Stato che dal mercato copiasse le cose positive, sembra, qui ed ora, il minore possibile dei mali.