Le grandi opere monumentali rappresentano da sempre un simbolo fisico del potere, dalla Piramide di Cheope alla reggia di Versailles, dalle cattedrali all’architettura nazifascista. In Italia, da qualche anno, si fa un uso politico simile anche delle grandi opere infrastrutturali per i trasporti. Megaporti, supervalichi, treni ad alta velocità hanno cominciato a essere presentati come un bene in sé, a prescindere da qualunque calcolo costi-benefici. Del resto, nell’immediato le grandi opere portano consenso elettorale e un’aura di progresso, ed è solo a lavori ultimati, quando in pochi se ne accorgeranno, che emergono gli altissimi costi pagati con i soldi di tutti i cittadini.
Tutto questo è insensato. Marco Ponti, autore dell’analisi costi-benefici che ha bocciato la TAV Torino-Lione, lo dimostra con argomentazioni tanto serrate quanto inascoltate, e con un vasto repertorio di dati ed esempi provenienti da altri paesi europei ma anche dagli Stati Uniti, dall’Africa e dal Sudamerica.
Le grandi opere apportano pochi benefici ambientali, non sono aperte alla concorrenza, ingrassano i soliti noti e creano scarsa occupazione. Sprecano il denaro pubblico sottraendolo a interventi più utili.
Grandi operette, in particolare, ci invita a ribellarci alla propaganda che insiste sull’urgenza di investire su larga scala nel trasporto ferroviario. La «cura del ferro» è costosissima, crea disuguaglianze economiche ed è tutt’altro che miracolosa dal punto di vista ecologico. Le recenti innovazioni suggeriscono invece di puntare sullo snellimento del traffico stradale, sulla messa in sicurezza del territorio, sulla ricerca per produrre veicoli sempre meno inquinanti. Non resta che agire di conseguenza.