12 ottobre 2022
di Francesco Ramella
Subissato dalle critiche, alla fine il sindaco di Milano è sbottato. Come racconta Mitomorrow, a margine di un evento all’Opera Cardinal Ferrari, Beppe Sala ha detto di non poterne più “di dibattiti in cui tutti dicono che il climate change è un pericolo e poi quando fai una cosa rimani da solo”. La “cosa” nel caso specifico è il provvedimento dell’amministrazione meneghina che dal 1° ottobre vieta (con eccezioni destinate a venir meno nell’arco di un paio di anni) l’ingresso in città dei veicoli diesel con standard inferiore all’Euro 5 e a quelli a benzina più vetusti e che entro il 2030 si applicherà a tutti i veicoli alimentati a gasolio anche quelli più recenti che rispettano, con ampio margine, gli stringenti limiti delle normative in vigore. Come si era scritto su queste pagine qualche mese fa, si tratta di una battaglia sproporzionata contro l’inquinamento locale. La qualità dell’aria da decenni è in via di miglioramento e la tendenza sarebbe destinata a proseguire in futuro anche in assenza di ulteriori provvedimenti restrittivi grazie al naturale ricambio del parco veicolare. In termini qualitativi, come illustrato nella figura di seguito, le restrizioni introdotte in Area B faranno scendere di un gradino il livello di biossido di azoto in città nel breve periodo per poi portarlo solo di poco al di sotto di quello che sarebbe stato raggiunto spontaneamente. La non trascurabile controindicazione è quella di far perdere buona parte del loro valore a veicoli perfettamente funzionanti. Un’obsolescenza programmata per mano pubblica con costi verosimilmente molto superiori ai benefici attesi.
Se non per la qualità dell’aria, sarebbe comunque auspicabile ridurre il numero delle auto per diminuire le emissioni di anidride carbonica? A prima vista, la risposta sembrerebbe inequivocabilmente positiva. Esaminando il problema più in profondità emergono però due aspetti che dovrebbero essere tenuti in debita considerazione per valutare questa come altre politiche adottate a scala nazionale ed europea volte a limitare la mobilità individuale. Il primo riguarda l’efficacia come ben evidenziato in un articolo scientifico pubblicato qualche anno fa da due tra i più autorevoli economisti dei trasporti europei e provocatoriamente intitolato: “sono davvero sostenibili le politiche per la mobilità sostenibile?”. Il punto sollevato dagli studiosi è che provvedimenti di restrizione della circolazione o di incentivazione all’uso dei treni e dei trasporti pubblici possono agire su segmenti di traffico limitati e, quindi, hanno un effetto parimenti esiguo sulle emissioni a scala nazionale e ancor più a livello mondiale, in particolare in prospettiva futura. Infatti, mentre la mobilità terrestre delle persone e delle merci nei Paesi più ricchi crescerà poco o nulla anche in relazione alla negativa evoluzione demografica, si assisterà nei decenni a venire a una forte espansione di quella delle aree a basso o medio reddito analoga a quella che noi abbiamo sperimentato a partire dal secondo dopoguerra. Secondo una previsione dell’International Transport Forum, la quota di spostamenti delle persone nei Paesi dell’OECD diminuirà dal 54% di inizio secolo al 22% del 2050 mentre quella delle merci dal 52% si contrarrà al 31%.
Provvedimenti come Area B o come l’offerta a prezzi superscontati di treni e autobus sono dunque sostanzialmente irrilevanti per il clima. Quale può essere una strategia efficace? La indicano chiaramente gli stessi ricercatori nel paper sopra menzionato: la strada da perseguire non può che essere quella della innovazione tecnologica. Una volta trovata la soluzione, essa può essere applicata ai veicoli di tutto il mondo. E se impareremo a spostarci a emissioni zero (o catturando la CO2 prodotta), limitare la mobilità diventerà inutile come testimonia, tra le altre, un’analisi del britannico Committee on Climate Change.
Vi è poi un secondo aspetto da esaminare, quello della efficienza. Se il contributo che può venire dalla riduzione del traffico è minimo nel breve e irrilevante nel lungo termine, non vi sarebbe comunque ragione per non considerarlo tra le opzioni percorribili qualora la soluzione fosse efficiente ossia comportasse benefici superiori ai costi: poco ma buono.
Così, però, non è. La ragione è da ricondursi all’elevato carico fiscale che in Italia e in Europa grava sull’uso dei carburanti. Come evidenziato anche nel recente Country Report per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale, le accise su benzina e gasolio equivalgono a una carbon tax di poco inferiore ai 250€ per tonnellata di CO2 emessa. Simmetricamente, per ogni tonnellata evitata grazie al contenimento degli spostamenti in auto, lo Stato perde tale introito con il quale potrebbe finanziare una riduzione delle emissioni fino a cinque volte superiore oppure servirsene per un impiego più proficuo.
Ridurre oggi la mobilità con divieti di circolazione a fini ambientali è dunque un cattivo affare. Il vero contributo che una metropoli come Milano può offrire per risolvere il problema del cambiamento climatico è quello della ricerca e della innovazione delle proprie istituzioni di ricerca e delle imprese.
Sarebbe invece ragionevole estendere il pagamento del pedaggio già previsto per l’accesso nell’area più centrale per portare in tutta la città la congestione a un livello ottimale.