22 maggio 2023
di Francesco Ramella
Prima molti mesi di siccità e ora un’alluvione con intere città sommerse dall’acqua, tredici morti e tredicimila evacuati.
Abbiamo alterato un delicato equilibrio e ora ne paghiamo le conseguenze che sono destinate ad aggravarsi nel tempo. Dobbiamo correre ai ripari prima che sia troppo tardi. Più rapidamente riduciamo le emissioni e meglio è. Ma è davvero così? Se questo approccio fosse corretto, dovremmo concludere che la scelta più opportuna sarebbe quella di far cessare all’istante in tutto il mondo l’utilizzo di combustibili fossili e le attività che comportano l’emissione di gas serra. Le conseguenze di una tale decisione, la migliore per fermare il cambiamento climatico, sarebbero facilmente immaginabili. Si tratterebbe quasi di tornare all’anno zero, a prima della rivoluzione industriale quando l’impatto delle attività antropiche era molto più contenuto seppure non trascurabile come nel caso della deforestazione.
Un salto all’indietro in un’epoca nella quale i nostri rapporti con il clima non erano poi così sereni.
Come ha scritto Luca Mercalli, in Piemonte tra il dicembre 2021 e lo scorso aprile, si è registrata la peggiore siccità da quando (1802) disponiamo di una misura delle precipitazioni. È stato superato il precedente record che risaliva al periodo tra il 1816 1818. Allora, come si legge nelle Memorie biografiche di don Giovanni Bosco: “la carestia aveva ridotto a miserevole stato il Piemonte”. Negli ultimi diciotto mesi, no: la siccità ha avuto gravi impatti per specifici settori ma le ricadute sulle condizioni di vita generali delle persone sono state minime.
E non si tratta di un’eccezione ma piuttosto di una regola. La vulnerabilità agli eventi estremi era molto più elevata prima di poter disporre di energia in abbondanza, di poter facilmente commerciare con tutto il mondo e di disporre di un bagaglio di conoscenze scientifiche che ci consentono di prevedere i fenomeni e ridurne sostanzialmente l’impatto.
Sia con riferimento alla siccità sia alle inondazioni, i più elevati livelli di mortalità a scala mondiale si registrano nella prima metà del secolo scorso (in Italia la decade peggiore è stata quella degli anni ’50 con più di seicento vittime). E una realtà analoga si registra per le carestie: negli ultimi cinquant’anni il numero di vittime è risultato di gran lunga inferiore a quello dei decenni precedenti.
Siamo dunque oggi molto meglio attrezzati per proteggerci dal clima ostile nonostante che la frequenza di alcuni fenomeni estremi sia probabilmente aumentata rispetto al passato. È come se viaggiassimo più velocemente ma con un’auto dotata di molti dispositivi di sicurezza che un tempo non esistevano. La “terapia” a base di fonti fossili e crescita economica ha funzionato molto bene. Ora, però, per evitare che gli effetti collaterali ci sfuggano di mano, dobbiamo decarbonizzare. In verità, c’è chi lo sta già facendo da tempo: da inizio secolo le emissioni di CO2 degli Stati Uniti sono diminuite del 15%, quelle della Unione Europea del 23% e in Italia del 30%. Non ha invece ancora cambiato rotta il mondo nel suo insieme: nel 2021 la CO2 immessa in atmosfera è risultata superiore del 50% rispetto a vent’anni prima; Cina e India hanno fatto registrare rispettivamente un + 173% e un +208%. Di conseguenza, il nostro peso sulle emissioni mondiali si è fortemente ridotto: Europa e Stati Uniti sono passati dal 37% al 21%; la quota dell’Italia è scesa dall’1,8% allo 0,9%.
La partita del clima si giocherà quindi per noi sempre più in trasferta. Misure locali e con un elevato costo per unità di emissione abbattuta – è il caso, ad esempio, della gratuità dei trasporti collettivi per ridurre l’uso dell’auto – sono irrilevanti e costituiscono uno spreco di risorse: sarebbe preferibile impiegarle dove la riduzione delle emissioni è molto meno costosa. Il sovranismo climatico, “prima le emissioni a casa nostra”, è inefficiente tanto quanto quello economico.
Al contrario, è interamente a carico di singoli, enti locali e governi nazionali, la responsabilità delle misure di adattamento e di gestione del territorio che, come abbiamo visto, hanno già avuto un ruolo centrale nel ridurre gli impatti del clima sulle nostre vite. Per il futuro la sfida più importante è probabilmente quella legata all’aumento della temperatura media e, soprattutto, ai picchi di caldo: in termini di potenziali vittime questa componente del cambiamento climatico è assai più rilevante rispetto a fenomeni come alluvioni e frane. Sappiamo che anche su questo fronte è possibile intervenire con grande efficacia: negli Stati Uniti, grazie alla diffusione degli impianti di condizionamento la mortalità nelle giornate più calde è diminuita dell’80%. Decarbonizzare significa però, nel breve-medio termine, far aumentare il costo dell’energia e, quindi, limitare le possibilità individuali di adattamento. È così per il caldo ma, paradossalmente, anche per il freddo che, pur in un mondo che si riscalda, causa un numero di vittime molto superiore rispetto alle temperature più elevate. Una recente stima dell’Economist stima pari a 68.000 il numero di morti in Europa nell’inverno appena trascorso a causa dell’impossibilità di riscaldare in modo adeguato le abitazioni.
Non dovremmo dunque scordare che, accanto ai rischi del cambiamento climatico, ci sono quelli, più difficili da scorgere ma non per questo meno reali, causati dagli interventi di mitigazione. Politiche ragionevoli dovrebbero tenere conto di entrambi.