1 giugno 2023

di Marco Ponti

Il dibattito sullo “spoil system” (cioè l’occupazione delle cariche pubbliche da parte dei un nuovo governo con persone di propria fiducia) non presta sufficiente attenzione ad alcuni problemi specifici e alle contraddizioni implicite del ruolo e degli obiettivi delle imprese pubbliche, in particolare di alcune.

Soprattutto di quelle non quotate in borsa, che spesso sono possedute al 100% da soggetti pubblici, e non hanno quindi azionisti di minoranza che possono “ficcare il naso” nelle gestioni.

Queste contraddizioni sono riconducibili largamente al concetto di “cattura del regolatore” da parte dell’impresa regolata, cioè al prevalere degli interessi aziendali su quelli pubblici (ma spesso vale anche il fenomeno inverso, in cui il regolatore politico induce il regolato a comportamenti dannosi per l’impresa, per ragioni di consenso).

Bisogna ricordare a proposito dei dirigenti nominati per via politica che questi comunque dovrebbero perseguire l’interesse dell’impresa.

Ma quell’obbiettivo, previsto dalla normativa per ogni SpA, pubblica o privata che sia, nel caso di imprese pubbliche tende a mettersi in contraddizione con l’interesse pubblico (questo non in senso generale: la ricerca del profitto di per sé è il motore della crescita economica).

Si pensi solo ai trasferimenti, o sussidi che a dir si voglia, da parte delle casse pubbliche.

La dirigenza, nell’interesse dell’azienda, tenderà a ottenerne il più possibile comunque e in qualsiasi forma, dichiarando ovviamente pressanti obiettivi sociali, sui quali sarà in grado di fornire un’ampia documentazione, perchè godrà nei confronti dei politici, di informazioni molto migliori (tecnicamente si chiama proprio “rendita informativa”), mentre il decisore politico ne sa molto meno.

E spesso per ragioni di consenso elettorale a breve sarà ben felice di credergli.

La riprova sta ancora nel fatto che spesso il decisore politico “si dimentica” di specificare la “mission” dell’impresa (cioè i precisi e verificabili obiettivi sociali), che ne giustifichi la natura pubblica. Dimenticanza cui ovviamente l’impresa approfitta subito, massimizzando solo gli obiettivi propri.

Un’altra distorsione riguarda la concorrenza: è indubbio che sia nell’interesse dell’impresa ottenere il massimo della protezione pubblica da questa fastidiosa caratteristica del libero mercato.

E anche qui, il decisore politico ha interesse che la propria impresa (specie se è un ministro del settore) non soffra, o peggio non rischi in alcun modo il fallimento. Anzi se farà profitti monopolistici in realtà il ministro competente farà una gran bella figura, anche se l’interesse pubblico ne soffrirà.

Spesso poi i regolatori “indipendenti” (le varie Autorità) mantengono un occhio molto benevolo sulle imprese i cui dirigenti sono di nomina politica, in quanto il potere dei regolatori ha comunque quella stessa origine. Ancora maggiore è il rischio se l’impresa si connota come “campione nazionale” o aspirante tale, cioè fonte di prestigio e consenso.

Il settore dei trasporti si presta bene ad esemplificare la debolezza del regolatore del mercato nei confronti di imprese pubbliche o anche di imprese in concessione, che soffrono di contraddizioni in fondo simili.

Vediamo ora più praticamente come in questo settore imprese pubbliche o in concessione, siano riuscite a massimizzare obiettivi propri a causa della debolezza del regolatore o dell’assenza di una chiara missione aziendale pubblica.

Il sistema delle concessioni autostradali ha visto l’assenza di una vera competizione negli affidamenti, con saggi di interesse garantiti altissimi, e spesso profitti conseguenti, a scapito degli utenti.

La cattiva manutenzione è diventata poi fenomeno palese con il crollo del ponte Morandi a Genova ed altri episodi simili.

La motivazione di questa inadeguata presenza pubblica a tutela degli utenti, è probabilmente dovuta al fatto che lo Stato ha goduto degli introiti fiscali sui profitti dei concessionari (quasi il 50%), in una spartizione assai poco virtuosa.

E’ un caso emblematico di “cattura spartitoria” del regolatore pubblico da parte delle imprese regolate, la principale delle quali, Autostrade per l’Italia, ha goduto anche di una generosissima liquidazione finale quando lo Stato ha revocato a se la concessione.

I servizi di trasporto locale, quasi tutti pubblici e affidati in concessione, e tutti ampiamente sussidiati, a vent’anni dai primi timidi interventi normativi per avere delle gare di affidamento credibili, nelle maggiori città non hanno mai visto una pressione concorrenziale degna di questo nome, a causa delle fortissime resistenze politiche locali e centrali.

Il caso ha molte analogie con quello degli stabilimenti balneari. E qui si badi non si tratta affatto di liberalizzare il settore, ma solo di diminuirne i costi ed aumentare la qualità, mantenendo i servizi in monopolio, anche se temporaneo (le concessioni sono periodicamente rimesse in gara).

E in imprese dove i risultati economici derivano essenzialmente della generosità dei sussidi, parlare di profitti (o peggio mostrarli) è cosa priva di senso economico reale.

Questo vale anche per la maggiore impresa pubblica non quotata italiana, FSI, che vede una situazione analoga a quella del trasporto locale: è stata trasformata in SpA all’inizio del secolo nella speranza di ridurne gli elevatissimi costi per le casse pubbliche, ma rimane in attivo solo grazie a trasferimenti pubblici rilevantissimi, che a vario titolo superano i 10 miliardi annui. Non si tratta di trasferimenti di per sé immotivati, ma certo per i quali non è chiesta alcuna rendicontazione quantificata, nemmeno dei risultati degli investimenti. Si potrebbe vedere anche qui uno scambio politico poco virtuoso: lo Stato non chiede conto dei risultati, neanche sociali, dei trasferimenti all’impresa, e questa si adegua ad obiettivi di consenso politico che con la ricerca del profitto o anche solo dell’efficienza hanno poco da spartire.

Per concludere, un cenno alla vicenda Alitalia (oggi ITA): se mai qui la ricerca del profitto ha avuto un qualche spazio, questo risale a molti decenni fa. In questo secolo si sono viste perdite miliardarie, anche cambiando nomi e proprietà. Lo Stato è intervenuto prima con sussidi dell’ordine dei 10 miliardi, poi direttamente come nuovo proprietario solo con la trasformazione in ITA, ma le perdite sono continuate. Adesso ha deciso di venderla gradatamente a Lufthansa, forse ponendo fine a questa non edificante vicenda, che non ha mai giovato all’immagine del paese.

Forse una riflessione non generica almeno sugli obiettivi pubblici di queste imprese è necessaria, anche al fine di aumentare la trasparenza gestionale.