Il dibattito sull’analisi costi-benefici per i progetti pubblici e sul manuale del Fio, incomincia ad acquistare un notevole spessore. In primo luogo, mi sembra non molto rilevante quale manuale si adotti ed, a limite, neppure quale metodologia d analisi (cost-benefits classico, Little e Mirrlees, Effect Method, ecc.). Sono fin troppo note non solo le incertezze tecniche del metodo, ma persino la fragilità delle assunzioni teoriche che vi sotto stanno.
Il punto è un altro: l’assunzione di un metodo di valutazione economica appare indispensabile al fine di sottrarre gli investimenti pubblici all’arbitrio ed alla discrezionalità dei meccanismi decisionali attuali, ed al fine di consentire un confronto politico meno mistificato sugli obiettivi di politica economica e sui mezzi per conseguirli.
L’analisi del tipo costi-benefici, tra molti difetti, presenta una serie di innegabili vantaggi proprio nella direzione ora citata.
Innanzi tutto, costringe la Pubblica amministrazione a considerare una serie di alternative di intervento, tra le quale si colloca necessariamente l’ipotesi di non intervenire affatto (ipotesi «do-nothing» o «reference solution» in linguaggio tecnico). Ora, è noto che l’analisi dei costi-benefici si presta molto bene ad essere «truccata» (cioè a dare comunque risultati positivi) in caso sia applicata ad un unico progetto; forse, è meno noto che è molto più difficile barare quando si tratta di confrontare diverse alternati e progettuali tra loro, in quanto i «pesi» da dare ai diversi parametri dell’analisi (prezzi, saggio di sconto, previsioni ecc.) devono essere resi ovviamente omogenei ex-ante.
In secondo luogo, costringe l’Amministrazione a formulare previsioni di domanda di lungo periodo ed quantificarle.
Per quanto questo esercizio sia difficile, è ovvio che tende ad aumentare la razionalità e la trasparenza delle scelte.
In terzo luogo, costringe l’amministrazione ad esplicitare obiettivi di efficienza e di equità (ridistribuiti ed occupazionali), a confrontarli tra loro, ad esplicitare i mezzi assunti per conseguirli ed i costi relativi.
E questo non è poco. Si pensi, per esempio, ai non meglio specificati «obiettivi sociali» che hanno legittimato interventi infrastrutturali fra i più discutibili, o peggio interventi a sostegno di interessi costituiti molto settoriali (ed assai poco «sociali»).
A questo punto, è chiaro che non è il meccanismo di valutazione finale che risulta il più rilevante (I.R.R. contro N.P.V., o valore aggiunto o guadagni in valuta, ecc.), ma l’esplicitazione di scelte, valutazioni e previsioni che precede il calcolo finale, e costituisce la struttura più significativa dell’analisi (le formule di calcolo, tuttavia, mantengono una rilevante utilità come strumento unificante e sintetico di confronto, se usate con le opportune cautele e riserve).
Ma veniamo all’obiezione forse centrale fatta al metodo dal prof. Sterpi: la difficoltà di quantificare gli «intangibles», cioè beni che non hanno prezzi di mercato, ed in genere beni densi di implicazioni sociali.
Questa è un’obiezione «antica» al metodo, ma mi sembra che occorra sgombrare il campo dagli equivoci una volta per tutte. Prendiamo il caso più clamoroso e noto: la misura del valore della vita umana, che tanto fa inorridire i nemici delle valutazioni strettamente economiche. Ora, tutte le scelte di investimento, non solo nel settore sanitario, contengono valutazioni implicite di costo della vita umana. Citerò due esempi noti: l’introduzione della dialisi renale in alcuni Paesi (Cina) e le misure di sicurezza nei trasporti.
La Cina, alcuni anni fa, decise che non poteva permettersi il costo di introdurre un sistema generalizzato di dialisi nel Paese. A questa scelta corrisponde, statisticamente, un certo numero di vite umane perdute. Analogamente, alla larghezza degli spartitraffico autostradali, o all’assenza di sistemi di spegnimento automatico degli incendi a bordo degli aerei, corrispondono statisticamente vite umane perdute. Ma nessuno si sogna di discutere che esiste un «trade-off» tra valore della vita e costi complessivi che la collettività può affrontare per risolvere un certo problema o dotarsi di un certo servizio.
Le spese per la sanità devono, comunque, attingere (anche nei Paesi ricchi) a risorse pubbliche limitate; aerei perfettamente «sicuri» peserebbero (e costerebbero) il doppio degli attuali, ed in questo modo molte poche persone potrebbero permetterseli. Se, dunque, le scelte sugli «intangibles» sono comunque implicite, è politicamente importante cercare in qualunque modo di renderle esplicite, anche se con metodi rozzi e apparentemente brutali. Il dibattito e la trasparenza delle scelte stesse non possono che guadagnarne.
Con tutto ciò, appare ingenuo temere, dietro le tecniche di valutazione che si sta tentando di introdurre in Italia, la comparsa di pericoli tecnocratici. I pericoli sono proprio di segno opposto, e vanno riconosciuti alla prassi attuale che, come è noto, nasconde dietro fantomatici obiettivi sociali (e spesso indimostrati obiettivi occupazionali) politiche spartitorie, interessi molto particolari, collegi elettorali da favorire, ecc. Oggi, il dibattito politico è praticamente assente su questi temi o, quando esiste, si svolge a livelli intollerabilmente mistificati ed ideologici.
L’introduzione di una griglia di riferimento che consenta di riferire ciascun progetto di investimento ad una serie di obiettivi espliciti (consumi, occupazione, distribuzione del reddito, inflazione, bilancia dei pagamenti, ecc.) non può che rinvigorire e riqualificare il confronto politico sulla politica economica del Paese. In questa luce, mi pare che le recentissime vicende dell’arbitrario intervento politico sulle decisioni del Nucleo di Valutazione del ministero del Bilancio si commentano da sè.
Marco Ponti