29 agosto 2024
di Francesco Ramella
Avete mai comprato un locomotore o un carro merci? Non un modellino, ma proprio uno vero, funzionante? Penserete di no ma vi sbagliate. È successo, quasi sicuramente a vostra insaputa. Tra i mille rivoli della spesa pubblica finanziata con le vostre tasse ve n’è anche più di uno che alimenta le società di trasporto merci ferroviarie. Si tratta di imprese piuttosto sui generis.
Di norma un’azienda si deve far carico di tutti i costi di produzione e, per rimanere sul mercato, deve più che coprirli con i ricavi della vendita di beni o servizi. Non è così per chi movimenta merci sui binari. La costruzione delle linee su cui corrono i treni è quasi interamente a carico dei contribuenti: è come se a un imprenditore si facesse gentile omaggio dell’impianto di produzione. Non è così per strade e autostrade che, tranne eccezioni, sono pagate da chi le utilizza con accise sui carburanti e pedaggi. Ma non basta. Non può mancare un bonus, il “ferrobonus”, un incentivo calcolato sulla base del volume di traffico ferroviario intermodale realizzato in un anno da ogni beneficiario. E poi ci sono i contributi pubblici per l’acquisto dei mezzi.
Secondo quanto riportato da Mario Sensini sul Corriere della Sera, il ministro Giancarlo Giorgetti sembra intenzionato a tagliare questo sussidio per un ammontare pari a 55 milioni. Il titolare del ministero dell’Economia non ha controfirmato il decreto ministeriale già approvato dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, evidentemente più propenso a esaudire i desideri degli operatori di settore. La loro reazione non si è fatta attendere: così si colpisce al cuore l’intermodalità e il riequilibrio modale nel nostro Paese, hanno detto.
Il mitico riequilibrio modale: meno camion e più treni e, in questo modo, meno inquinamento, meno ingorghi e più sicurezza. Sembrerebbe una politica sensata che, però, ha un piccolo difetto: non ha mai funzionato.
Decenni di trattamento di favore da parte dei governi di qualsiasi colore, in Italia come negli altri Paesi europei e il costante appoggio della Commissione europea non hanno portato ad alcun risultato di un qualche rilievo. Secondo i dati forniti di Eurostat, trent’anni fa la quota di domanda di trasporto merci soddisfatta dalla ferrovia nella Ue era pari al 15,6 per cento, oggi è il 12. Si tratta peraltro di statistiche assai poco significative: fanno riferimento, infatti, al peso della merce trasportata dai vari mezzi, un’unità di misura più da Gosplan che da economia di mercato.
Dal punto di vista economico il dato più rilevante sono i fatturati, non le tonnellate movimentate. In questa ottica il ruolo della ferrovia è ancor più marginale: in Italia, ad esempio, meno di 2 miliardi di ricavi a fronte dei oltre 90 del trasporto stradale. Non molto diverso è il quadro se si considerano i flussi di traffico: quelli su ferrovia equivalgono al 3 per cento di quelli su gomma.
Anche nel caso di una forte crescita dei flussi di merce su rotaia l’effetto sul traffico stradale sarebbe quasi impercettibile.
In ambiti molto limitati le politiche di riequilibrio modale possono avere successo ma non per questo sono necessariamente desiderabili.
Per esprimere una valutazione bisogna valutare costi e benefici. Dal lato dei costi si deve tenere conto, oltre che dei sussidi diretti, anche della perdita di entrate fiscali dei camion. Per quanto riguarda gli impatti negativi del trasporto su gomma, occorre rilevare come i due principali sono stati drasticamente ridimensionati rispetto al passato.
Se consideriamo l’inquinamento dell’aria, un autoarticolato a standard EURO_6 genera un danno che è inferiore del 98 per cento rispetto a quello provocato da un EURO_0; detto in altri termini: cinquanta mezzi di oggi emettono come un solo veicolo commercializzato trenta anni fa. E, simmetricamente, per ottenere la stessa riduzione di inquinamento che negli anni ’90 si poteva conseguire togliendo dalla strada un solo Tir, oggi è necessario eliminarne cinquanta spendendo molto più di allora. Lo stesso ragionamento si può fare con riferimento alla sicurezza: il tasso di mortalità dei mezzi pesanti (numero di morti rapportato ai chilometri percorsi) sulle autostrade italiane dal 1970 al 2022 è diminuito del 93 per cento.
È grazie ai miglioramenti tecnologici di mezzi e a più elevati standard costruttivi delle infrastrutture che negli ultimi decenni la qualità dell’aria è radicalmente migliorata e le vittime di incidenti stradali sono fortemente diminuite pur in presenza di livelli di traffico sempre più elevati. Non potrà essere diverso in futuro per le emissioni di CO2.
Vi è infine da notare che i sussidi oltre che inefficaci e via via più inefficienti sono anche iniqui. Perché dovrebbero essere gli inquinati a pagare un’impresa perché inquina meno di un’altra? È come se si sussidiasse qualcuno perché rubi un po’ meno.
Anche per questo motivo sarebbe quindi molto meglio eliminarli e applicare il principio, in teoria condiviso dalla stessa UE, secondo il quale “chi inquina, paga”. Nel caso del trasporto delle merci su lunghe tratte autostradali questo accade già ora, in misura finanche eccessiva.
C’è quindi da augurarsi che il ministro dell’Economia resista al prevedibile assalto alla diligenza di chi, non riuscendo a competere nel mercato, chiede con insistenza “l’aiuto da casa” e confermi il taglio annunciato per poi procedere a una seria spending review di settore: i 55 milioni che forse non saranno più distribuiti al trasporto merci sono una goccia nel mare magnum degli oltre 10 miliardi che ogni anno vengono trasferiti dai contribuenti alle ferrovie.