22 ottobre 2024
di Marco Ponti
Entrambi i recenti documenti strategici europei, uno di Mario Draghi, più esteso, e uno di Enrico Letta, presentano un capitolo dedicato alle infrastrutture (con particolare attenzione a quelle dei trasporti).
Nei contenuti si differenziano su diversi aspetti, ma coincidono nel raccomandare il “modello Rab” per quanto concerne l’attrazione di capitali privati nel finanziamento delle infrastrutture.
Ora parlare di un “modello Rab” non è chiarissimo, perché quell’acronimo sta per “Regulatory asset base”, e nessuno dei due autori fornisce ulteriori dettagli.
Ma con quella “base” di solito si intende solamente la definizione delle attività di un’impresa che devono essere soggette a regolazione pubblica, perché non possono essere messe in concorrenza come altre, in quanto sono dei “monopoli naturali”.
Spesso infatti imprese monopolistiche di questo tipo esercitano anche attività esponibili alla concorrenza.
Si pensi ai treni sulla rete ferroviaria (che è un monopolio naturale), o a compagnie aeree che a loro volta controllano aeroporti, o agli autogrill sulle autostrade. Ma anche agli operatori telefonici o elettrici rispetto alla rete fissa di distribuzione.
La regolazione pubblica dei monopoli naturali consiste principalmente nell’impedire che i monopolisti, pubblici o privati, danneggino gli utenti con tariffe troppo elevate.
Devono limitarsi a remunerare i loro costi, e possono fare profitti solo se riescono a ridurli, ma poi devono trasferire i benefici di quella riduzione agli utenti con la riduzione delle tariffe, come avviene con la concorrenza.
Analogamente se saranno inefficienti, perderanno dei soldi: una buona regolazione deve simulare il comportamento della concorrenza, quando questa non può operare.
Il “modello Rab” citato dai due autori significa con ogni probabilità proprio quello che si è descritto sopra.
Tutto chiaro e condivisibile? No, perché nel testo di Draghi si esplicita che questo approccio è fondamentale per attirare i capitali privati ad investire in infrastrutture, in quanto deve essere finalizzato a togliere a loro il rischio (“de-risk”). E c’è da supporre che Letta intenda la stessa cosa.
Togliere il rischio significa garantire non solo di recuperare tutti i costi, ma anche un profitto sul capitale investito, noto come Wacc (Weighted average capital cost).
Se i ricavi che genera l’infrastruttura non coprono tutti questi costi, la differenza la paga lo Stato. Compresi i costi di capitale. Cioè i privati non possono mai perdere soldi, e questa sembra essere l’essenza del “de-risk”. Possono solo guadagnare.
Ma togliere i rischi non significa cancellarli, significa accollarli allo Stato, e ovviamente le infrastrutture sono considerate molto rischiose, altrimenti il problema non si porrebbe. Cioè si pensa che la probabilità che vi siano costi pubblici più alti di quelli previsti sia elevata. In particolare che ci sia meno traffico di quello previsto.
Da un lato questi “costi occulti” rendono poco trasparente la scelta dei progetti, inducendo a sovrastimare il traffico previsto e sottostimare i costi (tanto poi pagherà lo Stato). E questo vale anche per i costi ed i benefici sociali delle opere, creando un incentivo a far opere di dubbia utilità. Incentivo di cui proprio non se ne sente il bisogno, data la propensione politica a privilegiare investimenti a fini di consenso.
Ma c’è un altro aspetto di scarsa trasparenza: la definizione del costo Wacc si presta ad accordi poco trasparenti, visto che si tratta di un’operazione molto complicata, non certo pubblica, e con alcuni gradi di arbitrarietà.
Per citare un esempio recente c’è il caso del Wacc concordato con i concessionari di Autostrade per l’Italia due decenni fa, che poi è rimasto pari al 12,5 per cento anche quando il costo del capitale si è ridotto drasticamente a una frazione di questo valore.
Questa garanzia di redditività vale poi ovviamente quali che siano gli standard progettuali, e questo induce a rendere le opere inutilmente costose (si chiama infatti “gold plating”). Meglio una percentuale certa su una cifra maggiore, no?
Sembra molto meglio rendere espliciti i costi veri delle opere, con stime pubbliche trasparenti e prudenti sia per i costi che per i traffici, anche a costo di vedere come finanziabili un numero inferiore di progetti, ma con maggiori certezze sulla loro utilità sociale e il loro impatto reale sulle finanze pubbliche.
Infine c’è un’istanza abbastanza sostanziale insita nell’economia liberale: i profitti sono socialmente legittimati anche a causa del rischio, sempre presente nei mercati concorrenziali, di perdere in tutto o in parte i capitali investiti.
Garantire gli investitori significa di fatto trasformare i profitti in rendite, per di più pagate dai contribuenti.