, 15 gennaio 2020

di Marco Ponti

Prima del 2019 in Italia praticamente nessuno sapeva cos’era l’analisi costi-benefici (ACB). Di solito, si decideva tutto a spanne, o meglio seguendo “l’arbitrio del principe” (la celeberrima lavagna di Berlusconi da Vespa con le 19 Grandi Opere ne è il migliore esempio). Poi arrivò il ministro Delrio, e fece intendere che tutto si sarebbe deciso con questa analisi. Poi decise che nulla si analizzava con nessuna analisi. Poi arrivò Toninelli, e la vicenda si ripeté in modo identico: da ACB per tutto, a decisioni addirittura contrarie alle analisi fatte, a nessuna analisi (escluso per la TAV, ma questa iniziativa non ebbe molto successo). Tutto dunque va bene sempre, e per tutti. Esiste oggi in Italia in effetti un’alleanza solidissima tra “partito delle infrastrutture”, economisti turbokeynesiani ai quali va bene qualsiasi investimento, e, per gli investimenti in ferrovie, la maggioranza degli ambientalisti. Inutile osservare che le opere civili fanno crescere poco il PIL (creano poca occupazione, e temporanea, e sono tecnologie mature), hanno effetti molto dubbi sull’ambiente (anche quelle ferroviarie), e in un paese dove la popolazione tende a diminuire e invecchia, la produzione industriale e la motorizzazione crescono poco, sono perlomeno legittimi i dubbi sulla priorità di far nuove infrastrutture di trasporto, rispetto a far manutenzioni estese e investire in tecnologie innovative. Ma il fatto che per la prima volta in Italia (nella fase iniziale di Toninelli), uscissero dei NO a qualche spesa pubblica, determinò anche una serie di critiche al “misterioso” metodo ACB, che, dati i risultati, doveva di sicuro essere sbagliato (alcuni critici, non informatissimi sulla realtà internazionale, parlarono persino di “metodo Ponti”, certo involontariamente troppo onorando chi scrive, visto che il metodo è stato sviluppato da alcuni premi Nobel). Vediamo di spiegare ai non addetti ai lavori in modo molto sommario ed incompleto, le due critiche più importanti. Contro le analisi fatte dal Ministero dei trasporti, la prima critica difendeva l’approccio, ancora adesso usato dalle ferrovie italiane (ma non indicato in alcun manuale), noto come dei “costi cessanti”. E’ riferito a chi passa dal trasporto stradale alla ferrovia, in seguito a un investimento che migliori quest’ultima. Questo approccio assume che se, per esempio, una ferrovia ci mette un’ora di meno di prima, il beneficio di chi adesso prende il treno non è solo l’ora risparmiata, ma anche la benzina, il pedaggio autostradale ecc., cioè i costi che non ha più. Giusto? Niente affatto: lui con la ferrovia più lenta di un’ora, aveva fatto i suoi conti, da cui spesso risultava che benzina e pedaggi valevano più della tariffa ferroviaria, ma gli conveniva lo stesso andare in macchina, prevaleva la comodità, il tempo di viaggio, il fatto che non doveva prendere altri mezzi per andare a casa ecc., cioè moltissimi aspetti che non conosciamo. Se la convenienza ad andare in macchina era molto piccola rispetto al treno, l’ora adesso risparmiata è davvero il suo beneficio totale. Invece, per quelli cui adesso, con l’ora risparmiata, conviene il treno, ma solo di poco, hanno un beneficio molto più piccolo dell’intera ora. Per questo motivo il beneficio di chi cambia modo si calcola che valga in media la metà del tempo risparmiato dalla ferrovia (è la famosa “regola della metà”). Ovviamente chi già viaggiava in treno ha il beneficio dell’intera ora risparmiata. La seconda grande critica riguardava il fatto che i costi ambientali, soprattutto fuori città, potevano essere inferiori alle tasse sui carburanti, cosa giudicata inverosimile. Ma questa non è una questione di metodologia, ma di semplici numeri: il valore dei costi ambientali da usare nelle ACB è determinato dalla Commissione Europea, e le tasse sulla benzina sono un dato ufficiale. Allora succede che quando alla fine dell’analisi si fanno le somme, per i veicoli che non viaggiano più perché del traffico si è spostato sulla nuova ferrovia, i benefici ambientali risultino inferiori al danno che ha lo Stato non incassando più quelle tasse. Il benessere collettivo (cui anche lo Stato contribuisce) in totale risulta diminuito da quel cambio modale. Volendo essere un po’ più astratti: se le tasse ambientali son troppo basse rispetto ai costi ambientali, si ha una perdita di benessere collettivo. Ma simmetricamente una perdita si ha anche se quelle tasse sono troppo alte. Altrimenti non avrebbe senso definire, come Commissione Europea, un livello di tasse efficienti, cioè “giusto”. Ora è successo che su queste questioni si sono svolti a Roma in autunno due convegni, uno internazionale organizzato da Bridges Research e uno nazionale organizzato da Sipotra, un’associazione di studiosi di trasporti che avevano espresso molti dubbi sui punti precedenti. Questi convegni nel loro insieme hanno visto una sostanziale convergenza scientifica sugli aspetti microeconomici tra gli studiosi presenti, che avevano dibattuto la questione per molti mesi. Tutto a posto allora? Molte cose certamente sì (c’erano stati anche veri e propri malintesi tra studiosi, nei mesi precedenti). Ma non è in fondo il dibattito accademico la cosa più importante: lo è la prassi che si usa per supportare le scelte pubbliche (non certo per sostituirle, ma per basarle su elementi meno arbitrari, e maggiormente trasparenti, indipendentemente dai Sì o dai NO che alla fine tocca alla politica pronunciare). E qui la strada da percorrere è ancora lunga, se, come si è accennato, gli investimenti si appoggiano ancora su strumenti di analisi non più difendibili, che tendono per loro natura a dire Sì a qualsiasi progetto infrastrutturale. Quest’ultima affermazione non è certo ideologica: è basata sul fatto che mai fino all’anno scorso si ha avuto notizia di una ABC che dicesse NO a qualcosa.

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