21 settembre 2020
di Francesco Ramella
Più anidride carbonica immettiamo in atmosfera e maggiori saranno l’aumento di temperatura e gli impatti sul clima. Nella prima fase, quella che stiamo vivendo oggi, le conseguenze positive e quelle negative sono grosso modo in equilibrio. Nel lungo termine la forbice si allarga e i costi saranno largamente superiori agli impatti positivi. E’ dunque necessario ridurre le emissioni ed è possibile farlo grazie alla innovazione tecnologica ossia producendo energia con via via minor contenuto di CO2 – la strategia che ci ha già consentito di ridurre drasticamente le emissioni di inquinanti atmosferici locali – oppure diventando più efficienti nell’utilizzarla, ad esempio progettando motori che consumano meno carburante a parità di prestazioni (anche sotto questo profilo rispetto agli anni ’70 dello scorso secolo sono stati compiuti non disprezzabili passi in avanti) oppure ancora limitando le dispersioni di calore migliorando l’isolamento termico degli edifici. Un’ulteriore opzione è quella di ridurre o, “meglio” ancora, azzerare la crescita economica. Meno ricchezza implica, a parità di altre condizioni, minori consumi energetici. L’Annus horribilis che stiamo vivendo ce ne offre chiara evidenza con una riduzione di emissioni rispetto all’anno precedente che non ha paragoni. Ma quest’ultima è anche l’alternativa che comporta i maggiori effetti indesiderati, effetti che possono (più che) azzerare i vantaggi conseguiti in termini di riduzione degli impatti negativi dei cambiamenti climatici. Vediamo perché. Come detto, riducendo le emissioni limitiamo le modifiche del clima. Ma non è questa l’unica opzione a nostra disposizione. L’altra è quella di diventare più resilienti. Anzi, nel breve e medio periodo quest’ultima è l’unica arma efficace a nostra disposizione: gli effetti della decarbonizzazione si faranno sentire solo tra molti decenni. Quello che accadrà nei prossimi 50 anni in larga misura dipende dalle emissioni già alle nostre spalle che, spesso lo si dimentica, esacerbano fenomeni naturali in larghissima misura preesistenti.
Ne abbiamo ampia evidenza per il passato. La mortalità correlata agli eventi estremi si è drasticamente ridotta nell’ultimo secolo.
Uno dei casi più significativi è quello del Bangladesh, tra i Paesi considerati più a rischio per i cambiamenti climatici. Ebbene, grazie all’implementazione di sistemi di allerta e alla costruzione di ripari temporanei, la mortalità causata dai cicloni è diminuita del 98%. Dal 2000 al 2019 hanno perso la vita in media meno di 300 persone all’anno a fronte di più di 14.000 tra il 1960 e il 1999. Il ciclone Amphan, il più potente del nuovo secolo, nello scorso mese di maggio ha causato 22 vittime.
La drastica riduzione della vulnerabilità a ciascun evento estremo già conseguita ci consente di essere ottimisti anche per il futuro. Anche se, come previsto dai modelli climatici, la frequenza degli eventi estremi dovesse aumentare, gli impatti in termini di vite umane perdute rimarranno contenuti se confrontati a quelli del passato. Se, ad esempio, la frequenza di un fenomeno che in passato provocava 1.000 vittime e oggi “solo” 20 dovesse crescere del 50%, assumendo pessimisticamente che non vi siano ulteriori riduzioni di vulnerabilità in futuro, il numero di decessi sarebbe pari a 30 e se dovesse raddoppiare a 40.
Con riferimento all’aumento della temperatura e dei periodi caratterizzati da temperature anormalmente elevate, vi è chiara evidenza che, laddove è diffuso il condizionamento degli immobili, la mortalità diminuisce in misura elevata: negli Stati Uniti è stato stimato un calo del 75% a partire dagli anni ’60.
Risultano in crescita invece i danni economici. Ma la colpa non è del clima che cambia. Da un lato, questa tendenza è conseguenza del fatto che un maggior numero di persone sceglie di vivere in zone a rischio più elevato, dall’altro, dal maggior valore dei beni danneggiabili.
Infatti, se “normalizziamo”, ossia consideriamo le modifiche economiche e sociali intervenute negli anni, non emerge finora un impatto significativo dei cambiamenti climatici. E se rapportiamo i danni economici degli eventi estremi al PIL mondiale, analogamente a quanto siamo abituati a fare per il debito pubblico per valutarne la sostenibilità e in consonanza con quanto previsto dall’ONU tra gli indicatori di sviluppo sostenibile, scopriamo che negli ultimi 30 anni in media le perdite hanno rappresentato lo 0,28% della ricchezza prodotta e il trend è in calo (non statisticamente significativo).
Uno degli effetti più rilevanti delle emissioni in atmosfera di gas serra sarà rappresentato dall’aumento del livello del mare. Riducendo le emissioni possiamo limitare questo effetto nel lungo periodo. Ma, anche con riferimento a questo impatto, l’adattamento può giocare un ruolo centrale.
L’esperienza alle nostre spalle più significativa al riguardo è senza dubbio quella dell’Olanda che ha saputo prosperare sottraendo spazi al Mare del Nord e che oggi ha un terzo del territorio sotto il livello del mare fino a una profondità di sette metri.
Il modello olandese non è certamente estendibile a tutte le zone costiere ma molti studi hanno mostrato come gli interventi di protezione possono essere molto efficaci ed efficienti.
Una valutazione pubblicata nel 2014 prevede che in uno scenario nel quale le opere di difesa rimangono immutate rispetto ad oggi e la popolazione mondiale aumenta fino a 9,8 miliardi, il numero di persone che ogni anno saranno colpite di inondazioni aumenterà nel corso di questo secolo da 3,5 a 200 milioni e il costo economico da 10 a 30.000 miliardi di dollari. Viceversa, con una spesa annua intorno ai 40 miliardi di dollari (grosso modo quattro volte quella attuale), le persone esposte si ridurrebbero rispetto a oggi di circa 8 volte e i danni si attesterebbero intorno ai 30 miliardi all’anno ossia un centesimo dell’ammontare senza intervento. La somma dei danni e delle spese di protezione sarebbe intorno ai 70 miliardi all’anno, pari allo 0,01% del PIL mondiale.
Un’analisi del 2018 stima che per 92.500 km di linee di costa nel Mondo la realizzazione di interventi di difesa siano efficaci ed efficienti (ossia meno costosi rispetto ad uno scenario di mancato intervento). In termini percentuali si tratta di solo il 13% delle coste totali ma a ridosso di esse risiede il 90% delle persone e si stima sia localizzato il 96% della ricchezza.
Lo scorso anno, infine, è stata pubblicata una ricerca che stima i costi dell’innalzamento del livello del mare in uno scenario statico e in uno che prevede la ricollocazione di abitazioni e attività economiche in zone più elevate: nel primo caso le perdite economiche al 2200 ammonterebbero al 4,5% del PIL mentre nel secondo sarebbero limitate allo 0,11% ossia quaranta volte di meno.
Adattarsi e ridurre in misura sostanziale costi umani ed economici è dunque possibile. Ma richiede risorse economiche ed energetiche. Coloro che ne hanno meno a disposizione possono farlo in misura più limitata. È questo il motivo per cui occorre essere cauti nell’attuare politiche di riduzione delle emissioni che comportino rilevanti aumenti del costo dell’energia e ne riducano la disponibilità.