23 settembre 2020
di Francesco Ramella
Per Joe Biden è colpa del clima e dei Repubblicani non vogliono fare nulla per evitare danni peggiori. Per Donald Trump la responsabilità dei devastanti incendi lungo la costa occidentale degli Stati Uniti è dei loro Governatori per la pessima gestione delle foreste. Bianco o nero. La campagna elettorale non ammette tonalità di grigi e sfumature di colore. O con noi o contro di noi. Eppure, a guardarla un po’ più da vicino e senza pregiudizi, la realtà appare molto più complessa. E una diagnosi ideologica forse non è il miglior preludio per un’efficace terapia.
La verità sta nel mezzo: è colpa del clima e della cattiva – ma per molto tempo non si è compreso che lo fosse – gestione delle foreste.
Prima di concentrarci sulla California è forse utile però ampliare lo sguardo a tutto il Mondo. Il cambiamento climatico, come sappiamo, è un problema che non ha confini nazionali e neppure continentali.
Fa più caldo e, dunque, si potrebbe concludere che oggi gli incendi siano aumentati rispetto al passato. Ma non è così. I fattori che determinano l’entità della superficie interessata dai roghi sono molti; la temperatura è solo uno di questi e non quello più importante.
Molti studi sul tema ci dicono che, a scala planetaria, l’evoluzione degli ultimi decenni è caratterizzata da una riduzione della superficie interessata da incendi boschivi. Tra questi, una ricerca pubblicata nel 2016 sulla rivista Science stima che tra il 2003 e il 2015 l’area complessiva combusta si sia ridotta di un quarto. Un risultato “inaspettato” come indicano gli stessi autori nel sommario dell’articolo.
La tendenza in atto dipende soprattutto dalle modifiche intervenute nell’uso del suolo con superfici un tempo ricoperte da foreste e oggi convertite all’agricoltura o destinate a insediamenti umani, soprattutto in Africa.
Si tratta peraltro di un’evoluzione che non è limitata al passato più prossimo ma si estende a tutti gli ultimi cento anni: una simulazione i cui risultati sono stati pubblicati su Nature nel 2018 mostra una forte riduzione delle aree bruciate dal 1930 in poi. Oltre al cambiamento dell’uso suolo questa analisi considera le ricadute delle azioni umane sia in termini di incremento di incendi causati deliberatamente sia di contenimento degli stessi grazie all’attività di soppressione.
È soprattutto quest’ultima azione che negli Stati Uniti ha reso possibile tra gli anni ’30 e gli anni ’80 dello scorso secolo una significativa riduzione delle aree devastate dagli incendi. Non è disponibile una serie storica unitaria ed è verosimile che i dati più lontani nel tempo risentano di doppi o tripli conteggi. Al netto di questa sopravvalutazione, nei primi decenni del ‘900 la superficie che ogni anno andava a fuoco era comunque superiore ai dieci milioni di ettari.
Abbiamo diretta testimonianza della gravità del fenomeno anche in epoca precedente dai resoconti dei giornali che sembrano quasi la fotocopia di quelli odierni.
Nel settembre del 1884 in un articolo sul New York Times si racconta il prolungato periodo di cielo coperto dalle polveri su gran parte del territorio nazionale a causa dei diffusissimi roghi di foreste come già in precedenza era accaduto nel 1881 e nel 1781.
Pochi anni dopo ancora il NYT raccontava delle foreste della California in fiamme con 700mila acri andati in fumo in una settimana.
Nel 1910 fu la volta del “Great Fire” che si portò via in due soli giorni 3 milioni di acri e fece 87 vittime.
Fu quello probabilmente il punto di svolta che condusse a una progressiva intensificazione dell’attività di spegnimento dei fuochi. Una scelta che nel medio periodo ha dato ottimi frutti come evidenzia la drastica diminuzione del fenomeno nei decenni successivi. La tendenza positiva mutò però negli anni ’80 quando prese avvio una risalita costante fino agli sconfinati roghi delle scorse settimane. Colpa del clima? Sì, ma non solo. Il riscaldamento ha senza dubbio determinato un aumento della probabilità di innesco degli incidenti. Sulla rilevanza di questo contributo i pareri sono discordi. Di nuovo, le variabili che influiscono sono molte e non è facile quantificarne la rilevanza; inoltre, il peso relativo differisce a seconda dell’ambito considerato. In un’intervista al Los Angeles Times, il conservazionista Craig Thomas, descrive il cambiamento climatico come la “ciliegina sulla torta” o, forse sarebbe meglio dire, della polpetta avvelenata che, come molti esperti del settore forestale denunciavano da lungo tempo, è rappresentata dall’accumulo di vegetazione. In alcune aree il numero di alberi per unità di superficie è cresciuto rispetto a un secolo fa fino a 8-9 volte. Si tratta della conseguenza indesiderata delle politiche di soppressione degli incendi e, al contempo, dall’abbondono di una pratica tradizionale dei nativi, quella di provocare intenzionalmente roghi con l’obiettivo, tra gli altri, di ridurre la vegetazione in eccesso e, quindi, scongiurare il manifestarsi di eventi catastrofici.
Negli ultimi anni è stato compiuto qualche passo nella giusta direzione ma è ancora troppo poco rispetto a quanto sarebbe necessario ossia un gigantesco – la superficie interessata dovrebbe essere di ben 20 milioni di acri (80.000 kmq) – insieme di interventi di incendio controllato e di taglio di alberi per creare dei corridoi privi di vegetazione e tali da ostacolare il propagarsi del fuoco tra le aree limitrofe. Gli ostacoli da superare sono ancora molti. Uno di questi è rappresentato dal fatto che un’attività sistematica di incendi controllati coronata da successo andrebbe a intaccare gli interessi sostanziosi di chi oggi si occupa dello spegnimento. Un altro è dovuto al fatto che le attività di incendio controllato devono sottostare alla stringente normativa sulla qualità dell’aria. È accaduto spesso in passato che interventi già programmati fossero stoppati dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente perché avrebbero determinato il temporaneo superamento dei limiti previsti dalla normativa.
Siamo, come si può ben capire, di fronte a una situazione paradossale: per evitare contenuti e meglio gestibili peggioramenti della qualità dell’aria si accetta la possibilità di subire conseguenze ben peggiori derivanti dai “megafire”.
Infine, come sottolinea in una dichiarazione rilasciata a ProPublica, Mike Beasley, un ex vicedirettore del nucleo antincendio dello Yosemite National Park, a chi si prende la responsabilità di dare inizio a un fuoco provocato ben difficilmente viene riconosciuto il merito di aver evitato un guaio più grosso mentre non è da escludersi una sanzione nel caso in cui, come può succedere, l’evento sfugga di mano.
Eppure, non sembra esservi altra strada nel medio termine. L’impatto sulla temperatura del pianeta delle misure di riduzione delle emissioni di gas serra si potrà avvertire solo tra molti decenni. Fino ad allora l’unica variabile sulla quale è possibile agire è questa: accettare costi e rischi limitati per evitarne di maggiori.
Se ben giocata questa carta può consentire agli Stati Uniti di evitare che si ripetano gli episodi più recenti e al mondo nel suo insieme di prolungare la positiva tendenza in atto da molti anni.