4 ottobre 2020
di Francesco Ramella
Sono rare le attività produttive umane che non abbiano un impatto ambientale negativo più o meno rilevante.
L’intervento pubblico per porre rimedio a tale problema consiste oggi, pressoché esclusivamente, nella definizione di standard emissivi e di limiti massimi di inquinamento.
Pensiamo al settore dei trasporti. A partire dagli anni ’70 sono state introdotte regolamentazioni via via più stringenti dei gas di scarico dei veicoli: da Euro 0 siamo arrivati agli attuali Euro 6. In parallelo sono stati adottati limiti relativi alla concentrazione ammissibile in atmosfera per un certo numero di sostanze e sono stati introdotti divieti permanenti o temporanei alla circolazione di alcune tipologie di veicoli.
È fuori di dubbio che la regolamentazione promossa dalla UE si sia rilevata efficace.
Anche se in molti non ne sono consapevoli, l’inquinamento atmosferico delle nostre città è radicalmente diminuito. A Milano, ad esempio, la concentrazione dei principali inquinanti si è ridotta dal 1980 di circa il 75%.
Efficacia, dunque, ma anche efficienza? La strada percorsa è stata quella meno costosa per migliorare la qualità dell’aria? E, inoltre, i traguardi che ci siamo imposti sono desiderabili?
La domanda da porsi è se i costi sopportati siano inferiori o, al contrario, superiori ai benefici conseguiti. Ridurre l’inquinamento è un bene (chi preferirebbe vivere, a parità di tutte le altre condizioni, in una città più inquinata di un’altra?) ma non ogni politica che ci consente di procedere in quella direzione è auspicabile. Vi è un livello di inquinamento ottimale che corrisponde alla condizione nella quale è minima la somma dei danni dell’impatto negativo e dei costi necessari per ridurlo.
Non essendo mai state effettuate valutazioni dei provvedimenti adottati è impossibile esprimere un giudizio di merito.
Si può però formulare una critica del metodo. Pensiamo, ad esempio, ai divieti di circolazione di alcune tipologie di mezzi. È auspicabile decidere che a partire da una certa data i veicoli Euro 1, 2, 3, 4 e fino ai più recenti Euro 5 e 6 non possano più circolare? Torniamo al punto di prima: la risposta è positiva solo se il vantaggio che ne deriva è superiore al costo imposto ai possessori dei veicoli interdetti alla circolazione. Costo che è dato dalla necessità di anticipare l’acquisto di un nuovo mezzo oppure, se inferiore, dal danno conseguente all’impossibilità di spostarsi o dal doverlo fare con un altro modo di trasporto. Immaginiamo il caso di una persona che effettuava quello spostamento solo occasionalmente. È probabile che l’acquisto di un’auto “autorizzata” non gli convenga e dunque rinuncerà a muoversi. Il divieto, inoltre, pone sullo stesso piano soggetti per i quali il viaggio ha un valore diverso.
Si tratta di un approccio poco raffinato, una terapia che rischia di avere significativi effetti collaterali.
È possibile un approccio alternativo? Sì, ed è quello che prevede di adottare il principio del “chi inquina paga”. Ogni mezzo dovrebbe essere assoggettato a un’imposta “pigouviana” pari al danno arrecato. Un Euro 0 dovrebbe quindi pagare molto, un Euro 3 meno e un Euro 6 pochissimo. Ma a nessuno verrebbe vietata a priori la possibilità di muoversi.
Identico approccio sarebbe auspicabile per le emissioni di CO2. Al posto di una pletora di standard, incentivi e così via regolamentando, sarebbe più efficiente (ed equo) prevedere l’applicazione di una carbon tax uniforme: i SUV dagli elevati consumi pagherebbero molto e le utilitarie parsimoniose poco.
Lo ricordava qualche tempo fa Paul Krugman: “Perché dare un “prezzo” alla CO2 è una scelta preferibile alla regolazione diretta? Perché la riduzione delle emissioni può avvenire lungo molti margini. I consumatori dovrebbero cercare di utilizzare meno energia? Dovrebbero spostare il loro consumo verso prodotti che consumano relativamente meno energia? Dovremmo cercare di produrre energia da fonti a basse o nulle emissioni? Dovremmo provare a rimuovere la CO2 dopo che il carbonio è stato bruciato? La risposta è, tutto quanto sopra. E dare un prezzo al carbonio, in effetti, dà alle persone un incentivo a fare tutto quanto indicato. Al contrario, sarebbe molto difficile stabilire regole per raggiungere tutti questi obiettivi; infatti, anche calcolare le emissioni comparative di una scelta semplice, come se guidare o volare in una città a poche centinaia di chilometri di distanza, non è affatto un problema semplice”.
Come nelle economie socialiste la pianificazione economica non funzionava, tra gli altri motivi, perché chi decideva non disponeva di informazioni sufficienti a valutare gli effetti delle proprie decisioni così, spesso, è inefficiente la pianificazione ambientale.
L’opzione che si è provato qui sopra a delineare ha almeno tre forti gruppi di oppositori: a) il primo è costituito da coloro che potremmo definire i “whatever it takes” per i quali qualsiasi provvedimento abbia un impatto ambientale positivo è di per sé auspicabile; b) i burocrati, il cui ruolo è tanto più centrale quanto più complessa e poco trasparente è la regolamentazione adottata; c) i gruppi di interesse che possono trarre vantaggi significativi orientando le scelte del legislatore a proprio favore anche se queste possono comportare un impatto netto negativo per la collettività nel cui interesse sarebbe necessario regolare meno e regolare meglio.
Regolare meno, ma meglio, sarebbe nell’interesse di tutti.