13 gennaio 2021

di Francesco Ramella

Il modo più rapido per salvare il pianeta? Un treno ad alta velocità. È questo il messaggio pubblicitario diffuso qualche anno fa da Bombardier, uno tra i principali produttori mondiali di veicoli ferroviari.

Un messaggio fatto proprio dal Governo che sembra intenzionato a confermare con il Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza una politica di investimenti imperniata sul trasporto su ferro sia per le lunghe distanze che in ambito locale.

È la riproposizione della politica “cura del ferro” come la battezzò, con uno slogan di successo, l’ex ministro dei Trasporti Graziano Delrio. Ma, a ben vedere, una linea di azione che ha radici molto più antiche e non limitate al nostro Paese. Nel lontano 2001 la Commissione Europea pubblicava il Libro Bianco dei Trasporti. Nella prefazione di quel documento di indirizzo della politica dei trasporti a scala continentale si legge che: «L’Europa deve assolutamente compiere una svolta nella politica comune dei trasporti  È giunto il momento di fissare per la politica comune dei trasporti nuove ambizioni: riequilibrare in chiave sostenibile la ripartizione modale». Meno auto e aerei, più treni e metropolitane.

Sono trascorsi vent’anni da allora. In questo arco di tempo i Paesi della UE hanno trasferito alle imprese ferroviarie risorse ingentissime: più di mille miliardi tra investimenti e sussidi, una volta e mezza l’ammontare dell’attuale Recovery Plan. L’obiettivo prefissato è stato conseguito? No.

Vediamo qualche dato. Nel 1995 vennero effettuati nei ventotto (ora ventisette) Stati dell’Unione spostamenti per un totale di 5,3 miliardi di chilometri di cui oltre il 75 per cento in auto e moto; l’alta velocità era agli albori e la ferrovia nel suo complesso totalizzava 376 milioni di chilometri, grosso modo come l’aereo (348).

Nel 2017 la mobilità complessiva delle persone è risultata pari a poco meno di sette miliardi di chilometri con una crescita pari al 32 per cento rispetto a metà degli anni ‘90. In termini assoluti i modi di trasporto che hanno fatto registrare lo scostamento più elevato sono il trasporto individuale su strada e l’aereo che, grazie allo straordinario successo delle compagnie low-cost, è più che raddoppiato nonostante l’alta velocità abbia dimostrato di essere fortemente competitiva su alcuni specifici collegamenti come quello tra Milano e Roma.

A livello nazionale e continentale la ferrovia resta, come le metropolitane e i tram, una nicchia di mercato con una quota inferiore al 2 per cento. Quota che non potrà cambiare, se non per qualche decimo di punto, nei prossimi decenni anche in considerazione del fatto che i bacini di domanda aerea più rilevanti sono già stati tutti acquisiti.

Appare quindi priva di fondamento l’affermazione contenuta nel comunicato stampa del Consiglio dell’Ue che dà notizia della designazione del 2021 come Anno europeo delle ferrovie secondo la quale: «Il trasporto ferroviario svolgerà un ruolo chiave nell’ambito degli sforzi per conseguire la neutralità climatica entro il 2050».

Così come quella del ministro federale tedesco dei Trasporti, Andreas Schaufer il quale ha sostenuto che: «Il settore ferroviario è la risposta a molte questioni critiche nel settore della mobilità, tra cui la neutralità climatica e l’efficienza energetica».

È come se il responsabile del dicastero dello Sviluppo economico proponesse di ridurre l’utilizzo della telefonia mobile investendo risorse pubbliche e sussidiando quella fissa.

Si potrebbe obiettare: meglio poco che niente. Ma non è così se si considera il costo opportunità delle politiche di riequilibrio modale dalla strada alla ferrovia. Nel caso di una metropolitana, ad esempio, se si sommano i costi di investimento, quelli di sussidio al servizio di trasporto e le minori entrate che derivano all’erario quando una persona decide di optare per il trasporto collettivo al posto dell’auto, ogni tonnellata di CO2 non emessa costa alla collettività intorno ai cinquecento euro.

Cinquecento euro che non possono essere impiegati per abbattere le emissioni in altro settore: per esempio, con la stessa cifra il tesoro potrebbe oggi teoricamente acquistare all’interno del sistema europeo di scambio (EU-ETS) permessi di emissione per una quantità più di dieci volte superiore.

Ridurre le emissioni dove costa di più implica poter conseguire un risultato più modesto a parità di risorse impiegate oppure dover sopportare un costo molto più alto a parità di obiettivo. Come hanno scritto su voxeu.org Robert Schlögl e Christoph Schmidt, «la riduzione delle emissioni dovrebbe essere programmata in modo tale che nella fase iniziale si intervenga negli ambiti che comportano oneri più contenuti».

Gli elementi sopra delineati non implicano che non si debbano più costruire linee ferroviarie o metropolitane i cui benefici non si limitano a quelli di carattere ambientale. Ma dovrebbero portare ad abbandonare una presunta strategia che, numeri alla mano, tale non può essere e a valutare caso per caso la redditività economica e sociale dei singoli investimenti.

Altrimenti è lecito il dubbio che “sostenibilità” sia semplicemente un passpartout per giustificare impieghi di risorse pubbliche certo ben visti dai fornitori del settore e dagli utenti dei servizi, ma che non sono nell’interesse della collettività che ne sopporta per intero l’onere.

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