Un’indubbia prova di coraggio
I massimi dirigenti delle ferrovie europee, riunitisi in Ungheria all’inizio di luglio, hanno firmato un documento congiunto molto esplicito e incisivo, che viene nominato “Dichiarazione di Budapest” per evidenziarne la rilevanza.
Coraggiosamente richiedono alle casse pubbliche degli Stati europei 500 miliardi da qui al 2030, e questo solo per le principali linee europee.
Fanno circa 100 miliardi all’anno. E ribadiscono con fierezza che devono essere tutti soldi dei contribuenti, eventuali capitali privati possono essere solo aggiuntivi.
Ma poi non sono ammesse incertezze: i finanziamenti devono anche essere garantiti e continui, non sottoposti a perniciose esitazioni politiche, che potrebbero derivare da altri meno nobili obiettivi sociali, o, peggio ancora, da problemi nei bilanci pubblici.
È certo anche da escludere che gli autori del documento siano in conflitto di interessi, richiedono quelle risorse solo per il bene della collettività.
Questo è comprovato senza possibili dubbi dagli obiettivi ambientali, che questi investimenti conseguiranno molto meglio di fantasiose ipotesi di elettrificazione dei veicoli stradali. Si legge infatti che lo sviluppo del settore ferroviario in Europa “rafforzerà la resilienza dei paesi dell’UE alle crisi globali e contrastando gli effetti negativi dei cambiamenti climatici”.
Infatti, viene da pensare, quella elettrificazione è meno certa, dipendendo molto da spese private, sempre ondivaghe. Meglio la solidità del denaro pubblico.
Che decenni di ingenti trasferimenti pubblici non abbiano avuto alcun impatto significativo sulla quota modale della ferrovia che rimane marginale, pari al 7%, è un dettaglio, che certo potrà essere superato di slancio aumentando ancora i trasferimenti evidentemente finora insufficienti.
Per l’ambiente poi il documento affronta coraggiosamente anche temi teorici, auspicando l’applicazione del principio dei prezzi pigouviani, noto come “polluters pay”, in moda da poter competere su un piede di parità con i trasporti stradali.
Il fatto che tutta la letteratura internazionale (OCSE, IMF ecc.) sostenga che tra i settori inquinanti quello stradale “internalizza” maggiormente per via fiscale i costi ambientali, è certo un errore, probabilmente legato a noti interessi industriali.
Comunque un sano mercato concorrenziale tra diversi modi di trasporto è auspicato con forza nel documento. Rimane tecnicamente un po’ complicato rendere omogeneo il finanziamento delle reti stradali e autostradali, pagate per la gran parte dagli utenti con pedaggi e accise sui carburanti, e le infrastrutture ferroviarie, totalmente a carico delle casse pubbliche. Ma perché preoccuparsi? Tutto si risolve con il coraggio, e una ferma volontà politica.