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7 febbraio 2020

di Francesco Ramella

Tutti i morti non sono uguali. Alcuni sembrano valere più di altri.

Ieri, tutti i giornali e i telegiornali hanno dedicato i titoli di apertura all’incidente ferroviario accaduto nei pressi di Lodi nel quale hanno perso la vita i due conducenti del treno Frecciarossa e più di trenta passeggeri sono rimasti feriti. E non c’è leader politico, da Conte a Salvini, da Zingaretti a Crimi, da Boldrini a Grasso, a Renzi, Sala, Carfagna che non abbia sentito la necessità di intervenire almeno con un tweet, il più delle volte scandalizzato, sulla vicenda. Alcuni sembrano la fotocopia delle dichiarazioni quelle rilasciate due anni fa dopo l’incidente avvenuto a Pioltello.

Il Corriere scrive che: “solo [corsivo nostro] negli ultimi 20 anni il bilancio delle vittime parla di 105 morti e 429 feriti”

E, ovviamente, non poteva mancare l’atto di accusa del sindacato di base al liberismo selvaggio: “le cause di questo nuova strage ferroviaria vanno ricercate nelle politiche di privatizzazione del settore che hanno determinato massicci tagli all’occupazione, diminuzione dei controlli e della manutenzione col conseguente decadimento della sicurezza, vista sempre più come un costo insostenibile per il management delle FS.” Privatizzazione che, banalmente, non è mai stata attuata. La rete ferroviaria è interamente nelle mani di soggetti pubblici, in larghissima parte di Rete Ferroviaria Italia, la società del gruppo Ferrovie dello Stato controllata al 100% dal Ministero dell’Economia. E viaggiano su treni di proprietà pubblica oltre il 90% delle aziende che fanno viaggiare i treni. Unica rilevante eccezione al momento è Italotreno, i cui convogli – come i Frecciarossa fino a ieri – non sono mai stati coinvolti in incidenti.

CGIL, CISL e UIL hanno indetto per oggi “uno sciopero di due di tutti i ferrovieri perché quanto è successo è inaccettabile”.

Reazioni che appaiono scomposte e controproducenti. Non vi è evidentmente nulla di sbagliato nell’esprimere solidarietà alle famiglie di chi ha perso la vita mentre svolgeva il proprio lavoro. Ed è giusto cercare di capire il prima possibile cosa è successo ma senza perdere di vista la realtà. Così facendo, si rischia infatti di porre in atto scelte che contrastano con il bene comune.

Proviamo a spiegare perché: il livello di sicurezza garantito dalle ferrovie in generale, e da quelle italiane in particolare è elevatissimo. Negli ultimi anni in Italia hanno perso la vita in incidenti ferroviari cinque persone all’anno. Come termine di paragone, sulle strade, dove pure sono stati compiuti progressi rilevantissimi negli ultimi 40 anni, perdono la vita ogni anno più di tremila persone, quasi dieci ogni giorno. Ieri e oggi, purtroppo, compresi. Ma queste vittime mediaticamente “pesano” molto meno di quelle, rarissime, su ferrovia. Non c’è nessun giornale nazionale che oggi dedica la prima pagina a chi ieri è stato coinvolto in un incidente mortale mentre si recava al lavoro.

L’enfatizzazione del rischio di incidente su ferrovia può avere due conseguenze negative. La prima è, paradossalmente, quella di indurre qualcuno ad abbandonare il treno a favore dell’auto, esponendosi così a un rischio di incidente molto più elevato (questa accadrà anche come conseguenza dello sciopero odierno). La seconda, più importante, è una non ottimale allocazione delle risorse pubbliche che implica un maggior numero di vittime.

Nelle attuali condizioni non vi è dubbio che il migliore utilizzo delle risorse da destinare alla sicurezza degli spostamenti sia quello che ne preveda l’impiego pressoché esclusivo a favore della strada, ambito nel quale è ancora possibile conseguire rilevanti miglioramenti rispetto alla condizione attuale. I Paesi che più hanno investito in sicurezza stradale, Svezia e Regno Unito, hanno un numero di vittime in incidenti (rapportato alla popolazione) che è all’incirca la metà quello del nostro Paese.

Il contributo più rilevante per la sicurezza dei trasporti che potrebbe oggi venire dalla ferrovia è quello, indiretto, che si conseguirebbe con un miglioramento dell’efficienza produttiva e la riduzione dei sussidi pubblici: se anche una modesta quota delle risorse che attualmente l’Italia e gli stati europei destinano al trasporto su ferro (quasi 50 miliardi di euro all’anno) venisse dirottata alla sicurezza stradale, la riduzione del numero di vittime di incidenti sarebbe verosimilmente dell’ordine di qualche centinaio di unità per anno. Si dovrebbe trattare di un rafforzamento dell’attività di controllo e repressione dei comportamenti non conformi al codice della strada, di interventi di manutenzione della rete ordinaria e, laddove giustificati in base all’analisi costi-benefici, di interventi di adeguamento delle infrastrutture tramite, ad esempio, la separazione dei flussi di traffico contrapposti (un’autostrada è indicativamente cinque volte meno pericolosa di una strada ordinaria). In ambito urbano si potrebbe intervenire, sulla scia dell’esperienza di Oslo, riducendo il flusso automobilistico in superficie con la realizzazione di infrastrutture sotterranee.

Per quanto riguarda la rete ferroviaria, sembra davvero difficile ipotizzare sia alla luce della loro entità sia della frequenza degli incidenti, che gli attuali trasferimenti pubblici per la manutenzione non siano adeguati. E, in ogni caso, qualora in specifici ambiti si evidenziasse una carenza di finanziamenti, le risorse integrative dovrebbero essere reperite attraverso la cancellazione o, quantomeno, il ridimensionamento di grandi progetti i cui benefici risultano essere di gran lunga inferiori ai costi, oppure con l’aumento del prezzo di biglietti e abbonamenti.

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