22 novembre 2021

di Francesco Ramella

Un piccolo passo nella giusta direzione. Così si potrebbe sintetizzare l’esito della COP26 tenutasi nelle prime due settimane di novembre. In caso di rispetto degli impegni di breve termine già presi da ciascun Paese, la meta verso la quale ci stavamo indirizzando prima dell’avvio della conferenza era quella di un aumento della temperatura di circa 2,4°C; il “bla bla bla” di Glasgow ci consente di limare un altro decimo di punto.

Se confrontata con gli scenari che ancora pochi anni fa veniva descritti come “business as usual” la prospettiva odierna è nettamente migliore. Le proiezioni più pessimistiche indicavano infatti un riscaldamento a fine secolo fino a 4-5°C. Lo scostamento rispetto alle ipotesi più fosche è stato conseguito grazie all’appiattimento della curva delle emissioni che, in parte è dovuto alle azioni già attuate ma prevalentemente è da ricondursi al fatto che le previsioni che indicavano una crescita esponenziale del consumo di carbone e, quindi, della CO2 emessa in atmosfera non erano realistiche. Fin qui, il bicchiere mezzo pieno. Se ci poniamo nella prospettiva del non superamento degli 1,5 °C, da Glasgow giunge invece la conferma che quasi sicuramente non ce la faremo. Per restare al di sotto di quella soglia si dovrebbero infatti quasi dimezzare le emissioni mondiali nell’arco dei prossimi dieci anni ossia avere una riduzione annua intorno al 6,5% analoga a quella registrata nel 2020 come conseguenza delle radicali misure di limitazione delle attività economiche e della mobilità predisposte per limitare la diffusione del Covid-19.

Scongiurato l’inferno dei cinque gradi in più e svanita l’illusione della salvezza sotto la soglia di un grado e mezzo, come sarà la Terra di mezzo si prospetta davanti a noi?

Nella narrazione prevalente gli 1,5 °C (e i 2 °C) di incremento della temperatura vengono presentati come dei punti di non ritorno da non superare whatever it takes. C’è chi ha scritto che “solo restando sotto gli 1,5 °C verrebbe conservato un pianeta nel quale vale la pena di vivere”. Oltre la metà dei diecimila giovani di varie nazionalità ed età compresa tra i sedici e i venticinque anni a cui è stato somministrato un recente sondaggio dicono di essere convinti che l’umanità è spacciata, tre quarti pensano che il futuro sarà spaventoso e quattro su dieci dicono di esitare ad avere figli. Molto diverso, quasi opposto, è il quadro delineato dagli scienziati dell’IPCC che prefigurano un ulteriore aumento dell’aspettativa di vita nel mondo (intorno a sette anni in più tra il 2020 e la fine del secolo con una riduzione del divario tra Paesi ricchi e quelli poveri), una riduzione del numero di persone che vivono in condizioni di povertà e che soffrono la fame e un forte incremento del reddito medio pro-capite  che nel 2100 in uno scenario intermedio potrebbe attestarsi a circa quattro volte quello attuale.

Senza dubbio aumenteranno le ondate di calore, le precipitazioni intense, si ridurrà la produzione agricola in alcune zone e continuerà a salire il livello del mare. A parità di altre condizioni questa evoluzione comporterebbe un incremento del numero di vittime di eventi estremi. Occorre però tenere in considerazione il fatto che con la crescita del reddito e con l’accumularsi delle conoscenze scientifiche a nostra disposizione miglioreranno ulteriormente le nostre capacità di adattamento già oggi sono molto superiori rispetto al passato. Nell’ultimo decennio nel mondo hanno perso la vita a causa di eventi meteorologici estremi in media 11.000 persone all’anno; rispetto ai primi decenni del secolo scorso la riduzione è di oltre il 95% in termini assoluti e ancor maggiore in rapporto alla popolazione.

Non siamo dunque “in missione per salvare la Terra” e, pur avendo alterato il clima, lasciamo in eredità alle prossime generazioni un mondo più prospero e più sicuro di quello che abbiamo ricevuto da loro in prestito.

La decisione che dobbiamo prendere può essere posta in questi termini: quanto del nostro benessere attuale siamo disposti a sacrificare per rendere ancor meno vulnerabile la vita di chi verrà dopo di noi? Quanto più rapida la transizione tanto maggiori saranno i costi nel breve termine e i benefici nel lungo periodo. Per minimizzare gli impatti negativi dovremmo ridurre da subito le emissioni là dove i costi di abbattimento sono inferiori e investire più risorse cosicché, grazie alla innovazione tecnologica, si riducano gli oneri per i settori che sono oggi “hard to abate” senza preclusioni rispetto a opzioni come la cattura della CO2 o il nucleare che potrebbero svolgere un ruolo significativo ma che, paradossalmente, sono avversate da chi afferma di avere più a cuore le sorti del pianeta. Si dovrebbe quindi ripensare quello che potremmo definire il sovranismo ambientale europeo che punta soprattutto a ridurre le emissioni interne (sempre meno rilevanti a livello mondiale) piuttosto che a finanziare più generosamente la ricerca e, anche in considerazione della responsabilità storica dei nostri Paesi per l’accumulo della CO2 nell’atmosfera, l’assai meno costoso abbattimento dei gas serra nei Paesi a minor reddito.