9 settembre 2022

di Marco Ponti

Si è visto in un articolo precedente il quadro complessivo, assai discutibile, delle scelte infrastrutturali del PNRR. Si puntano rilevantissime risorse, tutte pubbliche al contrario che per gli altri modi di trasporto, sulle ferrovie, e questo principalmente per ragioni ambientali. Ma si è anche visto che i benefici ambientali, trattandosi di interventi di lungo periodo, sono destinati a essere modesti, se gli obiettivi europei di elettrificazione del parco veicolare stradale saranno conseguiti. Inoltre, si tratta di opere con basso impatto occupazionale per euro speso, e anche questo impatto è molto diluito nel tempo, cioè privo di contenuti anticiclici.

Vediamo ora più in dettaglio la valutazione prodotta dalle ferrovie per la prima tratta dell’opera di gran lunga più costosa del PNRR, il raddoppio ad alta velocità della linea esistente ed in corso di velocizzazione Salerno-Reggio Calabria, ricordando che l’analisi è stata affidata al soggetto, FSI, destinatario dei fondi stessi, cioè in palese conflitto di interessi. La prima tratta collega Salerno a Praja a mare, circa un terzo dell’intera linea, per un costo economico previsto di circa 6 miliardi, che tuttavia includono anche interventi di ammodernamento sulla linea Battipaglia-Potenza-Metaponto-Taranto.

La valutazione socioeconomica del progetto prodotta da FSI è positiva, e come poteva essere altrimenti? Il VAN (valore attuale netto) che sintetizza il risultato dell’analisi dicendoci qual è il beneficio per la collettività rispetto al caso in cui l’opera non sia realizzata, risulterebbe positivo per un ammontare pari a 734 milioni di euro.

Dalla lettura critica (“audit”) dell’analisi fatta da BRT onlus emergono però solidi elementi che consentono di confutarne fattualmente i risultati.

Per qualunque investitore sarebbe buona regola esprimere un giudizio su un potenziale investimento adottando ipotesi prudenziali: un precetto che vale quando i soldi sono di investitori privati, e che dovrebbe, a maggior ragione, essere rispettato quando si tratta di decidere di utilizzare le risorse dei contribuenti. Anche perché i costi sono certi e vicini, i benefici incerti e lontani.

Gli estensori assumono invece previsioni di crescita economica e di evoluzione demografica irragionevolmente ottimistiche.

Questo, per quanto concerne il PIL nazionale, ma soprattutto per quanto riguarda il numero di occupati, che è oscillato tra i 22 e i 23 milioni dal 2004 a oggi, mentre si ipotizza una crescita fino a 28 milioni nel 2035 in un contesto di calo demografico, particolarmente acuto al Sud!

Ne discende una stima molto ottimistica anche per la crescita della domanda passeggeri. Per quanto riguarda le merci si compie poi un’evidente forzatura quando si assume un livello di domanda che deriva da un inverosimile obiettivo di spostamento dalla strada alla ferrovia contenuto nei documenti di pianificazione a livello nazionale, obiettivo che dovrebbe, semmai, essere verificato con le valutazioni dei singoli progetti.

L’analisi contiene inoltre un grave errore metodologico: tra i benefici sono inclusi i costi sostenuto da chi oggi si sposta in auto o in aereo e domani preferirà il treno non dovrà più sopportare. All’apparenza sembrerebbe ragionevole ma a guardare più in dettaglio non è così: se così fosse nessuno, potendo risparmiare, sceglierebbe già oggi l’auto che costa più del treno. Se in molti preferiscono la strada è perché essa garantisce uno spostamento che oltre, a essere più veloce, non richiede cambio di mezzo e, per la maggior parte delle persone, è più confortevole.   

Il beneficio reale si dovrebbe misurare, come indicano le linee guida della UE, come pari solo al miglioramento medio del servizio ferroviario per le persone che cambiano modo di trasporto.

Così facendo, il beneficio per i viaggiatori si dimezzerebbe: da 3,2 a 1,6 miliardi.

Un’altra ingiustificabile pecca dell’analisi riguarda l’ambiente: non si considerano gli impatti negativi e le maggiori emissioni di CO2 della fase di costruzione che, nel caso specifico, sono molto elevate poiché ben 54 km su 127 sono in galleria: si stima che il progetto comporti un aggravio iniziale di emissioni pari a 1,3 milioni di tonnellate a fronte di 1,58 evitate nei primi 30 anni di esercizio dell’opera; il bilancio risulta quindi positivo per sole 280 mila tonnellate e, di conseguenza, il costo unitario di abbattimento – quasi 28 mila euro per tonnellata di CO2 – risulta essere straordinariamente elevato rispetto ad altre opportunità di intervento (l’Europa fissa un massimo di riferimento intorno agli 800 euro per tonnellata: costi di abbattimento superiori sono evidentemente inefficienti).

In termini economici i costi ambientali da cantiere ammontano a circa 200 milioni di euro.

Nella valutazione occorrerebbe poi includere la riduzione delle entrate fiscali per lo Stato conseguente alla riduzione delle percorrenze dei veicoli stradali che comporta un costo di 334 milioni.

Infine, sembra essere stato sopravvalutato per 380 milioni il valore residuo dell’opera al termine del periodo di valutazione. Il metodo con cui è calcolato non è esplicitato, e sembra generare un valore del tutto anomalo.

Qualora si considerino gli scostamenti qui sopra riepilogati, il VAN dell’opera si inverte di segno passando da 732 milioni a – 1.890 milioni, cioè una forte perdita di benessere, anche includendo l’ambiente, per la collettività.

Sembra inoltre che vi sia incoerenza tra alcuni parametri adottati per la monetizzazione dei costi ambientali e, in particolare, quelli della incidentalità che potrebbe essere sovrastimata di un ordine di grandezza, e quelli delle emissioni di gas serra per le quali, come si è detto, non si tiene in considerazione la riduzione delle emissioni unitarie coerente con l’obiettivo della UE di azzerare le emissioni al 2050.

Il bilancio sarebbe da rivedere ulteriormente in negativo qualora si considerasse anche un limitato aumento dei costi rispetto a quelli preventivati. Le “buone prassi” internazionali considerano generalmente un valore del 10% come minimale.

In presenza di un aumento a consuntivo del costo di investimento pari al 10%, il VAN si attesterebbe a -2.490 milioni (e si segnala che in generale tali aumenti di costi sono risultati ben maggiori).

Le forzature metodologiche qui molto sommariamente riassunte sono poi ripetute da FSI per tutti i progetti del PNRR. Questo pone un problema di trasparenza politica assai più vasto: se si vogliono realizzare grazie ai soldi del PNRR opere di dubbia o nessuna utilità economica, perché ricercarne una legittimazione di pura facciata, che finisce per gettare totale discredito sui sistemi di valutazione che invece dovrebbero garantire trasparenza democratica alle scelte? E anche se si volessero privilegiare obiettivi distributivi (favorire regioni meno sviluppate), perché non dichiararlo esplicitamente, rinunciando a questa operazione di facciata? Probabilmente perché neppure gli obiettivi distributivi sono credibili (opere che servono viaggi di lunga distanza, cioè saltuari o per affari, difficilmente riguardano categorie a basso reddito, come abbiamo argomentato nel precedente articolo).

Non rimane che la spiegazione meno accettabile: si tratta di perseguire obiettivi di consenso politico a breve termine, cui opere pubbliche di questo tipo sono perfettamente funzionali. Tuttavia, questo al prezzo di rinunciare a fare quello che realmente servirebbe alla mobilità del Mezzogiorno, ma che è molto più difficile e meno appariscente: far funzionare meglio l’esistente, con interventi sistematici, diffusi e capillari, soprattutto di manutenzione, e destinati alla mobilità pendolare e urbana di lavoratori e studenti. E anche in termini occupazionali ed anticiclici una strategia di questo tipo sarebbe molto più efficace.