9 gennaio 2024
di Marco Ponti
ATM costava ai contribuenti circa un milione di Euro al giorno, adesso si avvia a costarne due. I dati sono presto riassunti: i costi di produzione per il 2024 saranno dell’ordine del miliardo, e gli utenti ne pagheranno circa 400 milioni. Gli altri 600 dovranno essere messi suddividendoli con lunghe trattative, tra Comune, Regione e Stato. Ma comunque saranno soldi pubblici.
Soldi che complessivamente saranno pochi: dopo la grande abbuffata di spesa pubblica del PNRR, l’Europa ci dice con il patto di stabilità recentemente firmato che adesso è ora di tirare un po’ la cinghia. Non è che ci vuol male o complotta contro di noi, teme che il nostro enorme debito pubblico vada fuori controllo. Dovremo forse elemosinare sconti, e proroghe, e aiutini. Con l’Europa “è finita la pacchia” ma non per l’Europa, per noi.
E i problemi di ATM non sono finiti qui: all’azienda mancano almeno 300 autisti, tanto che hanno dovuto tagliere le corse rendendole meno frequenti, con buona pace dell’attrattività del servizio pubblico. Diminuire le frequenze infatti per gli utenti è identico che rallentare la velocità dei mezzi: allunga i tempi di viaggio. Quindi ci sono rischi concreti di diminuire ancora gli utenti, e i relativi ricavi, e aumentare la congestione del traffico. La congestione fa aumentare rapidamente le emissioni, quindi anche l’ambiente ne può soffrire.
Per trovare gli autisti che mancano ovviamente bisogna pagarli di più, la vita a Milano costa carissima. Il problema autisti tuttavia non è di facile comprensione. Quanto possono costare 300 nuovi autisti all’azienda? Assumendo una retribuzione mensile netta, come salario di ingresso “incentivante” a 2.500 euro mensili, si arriverebbe ad un costo massimo intorno ai 20 milioni di euro, che rispetto al miliardo previsto per il 2024 rappresenterebbero un incremento di costi dell’ordine del 2%. Non molto di certo, e appare poco spiegabile che si sia arrivati al punto di peggiorare il servizio prima di iniziare ad agire. Sicuramente 300 autisti non sono mancati da un giorno all’altro.
Appare dunque una situazione con costi di produzione assolutamente incomprimibili, neanche al fine di contraddire il più rilevante e conclamato obiettivo dell’amministrazione in fatto di mobilità dei cittadini: ridurre il traffico privato e la congestione, rendendo più attrattivi i trasporti pubblici, che assorbono un terzo circa del bilancio comunale.
Poi è emersa anche l’idea di rendere del tutto pubblica la metro 4, comprando per 230 milioni la quota dei soci privati, idea che genererà a breve altri costi, e appare anche per il lungo periodo molto discutibile infatti il Comune ha già una larga maggioranza (69%), e i privati di solito vendono quando prevedono di avere ritorni scarsi o negativi dal loro investimento.
Come il Comune pensa di trasformare in positivi questi ritorni (senza averlo comunicato prima ai venditori) sembra un po’ misterioso, visto anche che dovrà ricorrere per la maggior parte dei soldi necessari (150 milioni) ad un prestito bancario, comunque oneroso.
Che fare di fronte a questo complicato scenario?
Alzare le tariffe sembra difficile, sono state alzate da poco, sono tra le più care d’Italia, si colpirebbero le categorie più deboli, e si perderebbero altri utenti a favore del mezzo privato.
Una prima risposta è ovvia: era evidente da almeno un decennio che la situazione dei nostri conti pubblici era drammatica (la peggiore d’Europa dopo la Grecia), e che quindi contare su crescenti risorse pubbliche sarebbe stato per lo meno incauto. E d’altra parte era non meno evidente che l’apertura dei trasporti pubblici a quella prudentissima forma di competizione che consiste di mettere in gara per un periodo di tempo limitato l’affidamento dei servizi, stava dando rilevanti benefici alle casse pubbliche in tutta Europa.
E ciò senza comportare né una liberalizzazione né una privatizzazione del settore, e anzi tutelandone pienamente la socialità sia verso gli utenti che verso i dipendenti. Solo dirigenti e gestioni pubbliche inefficienti ne avrebbero sofferto.
In Germania anche i servizi ferroviari regionali messi in gara avevano mostrato ottimi risultati.
Ma anche nell’iper-conservatrice Italia questa evoluzione era visibile, con l’indubbio successo della liberalizzazione degli autobus di lunga distanza (un servizio sociale usato dalle categorie a più basso reddito, che invece di essere sussidiato è tassato, per ragioni del tutto incomprensibili). E persino l’impenetrabile settore ferroviario nazionale ha visto successi clamorosi con l’apertura al mercato dell’Alta Velocità (servizi più frequenti e tariffe minori), e nei servizi merci.
Occorreva muoversi subito con gare vere, in modo anche da consentire gradualità e sperimentazioni parziali, che avrebbero riguardato non solo i costi di produzione, ma anche le tecnologie e i modelli di gestione. Ma anche i rapporti con i fornitori. Star fermi in questo settore è pericoloso: gli interessi costituiti ovviamente si consolidano affinché nulla cambi. E sono interessi non certo illegittimi, e con solidi legami politici.
L’esempio dei taxi avrebbe dovuto illuminare: non aprire a prudenti forme di concorrenza rende sempre poi più difficile innovare (nella liberale New York ci han messo 5 anni di trattative con i taxisti).
Ora per il trasporti pubblici si prospetta, tra mille cautele alle quali anche il governo Draghi non si è sottratto, una nuova stagione di gare. Occorre adesso fare in modo di non ripetere il passato, cioè non fare gare tali solo nella forma, e di cui tutti sanno benissimo da subito il vincitore. E non sarà facile.