30 marzo 2023

di Marco Ponti

Autostrade e viabilità ordinaria: un modello organico.

Esistono elementi tecnici di assoluta rilevanza per valutare come indifendibile il modello gestionale per le autostrade basato su concessioni di lungo periodo, in solido per gestione e investimenti, centralizzato integralmente, e sostanzialmente finanziato dagli utenti con i pedaggi.

Questi elementi erano presenti fin dall’inizio dell’operazione di affidamento ai privati della parte della rete stradale di maggiore qualità (a suo tempo anche lo scrivente provò invano a metterli in luce). Proviamo a riassumerli.

Innanzitutto occorre un “minimo sindacale” di teoria economica: non è efficiente che i costi di investimento delle infrastrutture (monopoli naturali) siano a carico degli utenti. E in secondo luogo, se si devia da questo principio, sarebbe sensato farlo nella stessa misura per tutte le infrastrutture (i problemi ambientali sono generati soprattutto da chi usa le infrastrutture, e quindi non devono essere inseriti nelle forme di finanziamento degli investimenti. Esistono strumenti, quali tasse sui carburanti e standard, molto più diretti ed efficienti, come indica la stessa Commissione Europea).

Richiamiamo di seguito questi fatti.

– Come si è già visto, le autostrade a pedaggio sono oggi funzionalmente identiche a molti segmenti della viabilità ordinaria (superstrade, autostrade non a pedaggio). Anche la giustificazione giuridica del pedaggio stesso, già fragile (“consentono maggiori velocità”) viene meno: si pensi solo ai frequenti fenomeni di congestione, o ai rallentamenti per lavori.

E anche che oggi la parte dominante del traffico è interna ai confini regionali, anche sulle autostrade stesse (le percentuali sono dell’ordine del 75%; il traffico di lunga percorrenza per cui sono nate ha perso di ruolo relativo).

– I maggiori problemi della mobilità stradale (congestione, manutenzione, effetti antropici dell’inquinamento) sono a scala regionale, e ne segue che anche le informazioni relative sono reperibili soprattutto a questa scala, non certo a scala nazionale.

– La motorizzazione italiana ormai satura e la demografia in calo fanno ritenere che la necessità di nuove infrastrutture autostradali sia nel complesso ridotta. Non così quella di manutenzione dell’esistente, e gli interventi sulle reti locali.

– La rete autostradale è già ampiamente stata ammortizzata dalle tariffe pagate dagli utenti, soprattutto tenendo conto della generosa remunerazione accordata ai concessionari.

– Non esistono economie tecniche di scala per le manutenzioni al di sopra dei 300 km (si veda lo studio del regolatore pubblico ART, già citato).

– L’evoluzione tecnologica consente oggi l’eliminazione dei caselli, che tra l’altro generano spesso rilevanti perdite di tempo nei periodi di punta (si vedano le soluzioni “free flow” o satellitari).

Ne discende che il sistema della viabilità va pianificato e gestito in solido, e a livello regionale. E non è solo un problema di investimenti: i flussi di traffico vanno ottimizzati a quella scala, quindi anche i costi, monetari e non, da far percepire agli utenti (tariffe, velocità, vincoli, ecc).

Quindi le attività più rilevanti per la mobilità stradale sono proprio quelle “fisiologicamente” meglio gestibili a livello locale.

I citati fenomeni di congestione sono poi strettamente correlati con quelli ambientali, in quanto le emissioni con effetti sulla salute (cioè non quelle relative al clima, “internalizzate” dalle accise sui carburanti) variano strettamente in funzione della velocità dei veicoli e dell’esposizione dei residenti alle emissioni.

Le tariffe di congestione sono già presenti in molte realtà urbane, anche nazionali (Milano), e l’evoluzione tecnologica le rende facilmente applicabili anche su reti estese (come per esempio in Germania).

La copertura dei costi di manutenzione può provenire senza particolari problemi da una quota (ridotta) delle accise sui carburanti e dai proventi delle tariffe di congestione (anche perché queste ultime presentano problemi di equità, noti come “effetti di club”, su cui non è possibile qui dilungarci). Tasse e accise sul sistema stradale generano allo Stato introiti, al netto dei costi, dell’ordine dei 40 miliardi all’anno.

Ma ora, se il sistema delle concessioni “in solido” di costruzione e gestione della rete autostradale ha dato cattivi risultati, la gestione pubblica diretta, nazionale e locale non ne ha dato certo di molto migliori in termini né di manutenzione, né di gestione dei concessionari.

E non vi sono ostacoli tecnici all’affidamento competitivo, per porzioni della rete viaria complessiva e per durate limitate, della manutenzione (gli investimenti sono ovviamente già affidati mediante gare).

Cambierebbe radicalmente il peso politico degli attori privati in gioco: in assenza di comprovate economie di scala, una politica di “spezzatino” a scala regionale sembra poter garantire molta maggiore efficienza e trasparenza, e attività di pianificazione molto meno condizionata da interessi privati troppo influenti (tecnicamente, con troppo “clout regolatorio”).

L’affidamento in gara della manutenzione di segmenti (tendenzialmente subregionali) delle reti stradali, inclusive dei tratti autostradali, potrebbe utilmente essere riferito anche ai sistemi informatizzati di gestione e tariffazione della congestione, e/o dell’allocazione ottimale del traffico in caso di emergenze (incidenti, lavori).

Una strategia come quella sopra delineata è di fatto solo un esempio, ve ne potrebbero essere certo altre.

Tuttavia strategie pubbliche per il settore più importante della mobilità (e destinato a rimanere tale) sono irrinunciabili, mentre il sistema delle concessioni ha determinato una frattura gestionale e funzionale inutile, inefficace e inefficiente.

L’uscita dalla logica delle concessioni non significherebbe affatto una “ripubblicizzazione” del sistema, come abbiamo visto, ma solo la restituzione alla sfera pubblica di quanto gli compete, cioè delle attività di pianificazione e di regolazione.

Certo il problema della transizione appare molto rilevante, tuttavia nessuna strategia è pensabile se non si ha chiaro l’obiettivo (pubblico) che si vuole conseguire.

Ma ora il concessionario di gran lunga dominante (Autostrade per l’Italia, AspI) è divenuto, certo a troppo caro prezzo, un soggetto a maggioranza o a controllo pubblico.

Occorrerebbe innanzitutto che il nuovo padrone politico orientasse l’obiettivo principale di AspI all’interesse collettivo, e non a risultati finanziari, tenendo conto anche, come si è detto, che la rete è già sostanzialmente stata ammortizzata dagli utenti, e che in realtà dunque stiamo parlando di una tassa impropria e sostanzialmente iniqua. 

Con una strategia chiara e il controllo pubblico del maggior attore, le traiettorie di una graduale riforma del settore si troverebbero di certo, se vi fosse la volontà politica, cosa di cui è purtroppo lecito dubitarne.

Ferrovie

Il PNRR ha giustamente nell’innovazione uno dei suoi obiettivi centrali. E l’innovazione non è solo tecnologica (“di prodotto” o “di processo”, secondo la letteratura tradizionale sul tema). Può essere anche di tipo gestionale, e questo è particolarmente vero nel settore dei servizi di trasporto. Michael O’Leary, che ha di fatto rivoluzionato il settore aereo in Europa introducendo i servizi low-cost con la RyanAir, ha ridotto in media del trenta per cento le tariffe per tutti i viaggiatori europei, perché anche la concorrenza delle superprotette compagnie aeree nazionali ha dovuto adeguarsi per sopravvivere.

Ora, il settore dei trasporti ferroviari è quello su cui, per ragioni ambientali, l’Europa e l’Italia puntano molto sul piano infrastrutturale, allocandovi ingentissime risorse, anche su progetti di alto costo per le casse pubbliche, e spesso di dubbia priorità.

Ma l’attuale situazione gestionale delle ferrovie appare arcaica, oltre che costosissima per l’erario (circa 12 miliardi all’anno di trasferimenti netti, di cui 4 in un fondo pensioni “speciale” che ovviamente elimina il contenzioso e i relativi costi in caso di dismissioni del personale). Tali trasferimenti sono in generale arbitrari, cioè non motivati se non nominalmente, a obiettivi sociali, che infatti non sono mai misurati in termini quantitativi, pur essendo oggi facile farlo: perchè 12 miliardi, e non 6 o 24? Nessuno sembra in grado di rispondere.

La rete ferroviaria è certo un “monopolio naturale”, ma i servizi non lo sono, tecnicamente sono apribili con successo alla concorrenza, come dimostrano sia esperienze straniere (anche nelle ferrovie locali) che italiane (si veda l’alta velocità con due operatori, e i servizi merci con molteplici operatori).

Una innovazione potenzialmente rilevante è possibile proprio nella gestione della rete. Perché un concessionario unico, interamente pubblico, e con una concessione praticamente eterna (scade nel 2079)? Nessuna altra concessione, di qualsiasi infrastruttura, di trasporto o meno, ha caratteristiche simili. Un paragone possibile è solo con le forze armate. Il concessionario pubblico poi si trova in posizione di radicale conflitto d’interessi con gli erogatori privati dei servizi ferroviari che utilizzano la rete, percorsa anche da servizi pubblici concorrenti (merci e alta velocità gestiti dal proprietario stesso della rete).

Tuttavia interventi radicali sulla gestione dell’infrastruttura sono certo più difficili e remoti di quelli possibili sui servizi. L’esperienza diretta italiana ha dimostrato invece che la competizione è perfettamente possibile, e benefica per l’utenza, nei servizi, sia di Alta Velocità che in quelli merci.

Che senso ha mantenere delle imprese pubbliche in questi due segmenti, alterando il radicalmente il mercato sia per loro integrazione verticale con la rete che perché tecnicamente non possono fallire la, al contrario dei loro concorrenti?

Un altro servizio sussidiato suscita perplessità: anche i treni a lunga percorrenza non-AV lo sono senza alcuna motivazione, ma debolmente. Per quale mistero non vi è alcuna pressione concorrenziale per questi servizi? L’unica spiegazione possibile è che proprio l’integrazione verticale di Trenitalia, e la sua natura pubblica, scoraggi l’avvento di soggetti terzi, altrimenti dovremmo immaginare un’efficienza insuperabile dell’incumbent, ipotesi alquanto remota. Ma anche la semplice espressione di volontà politica di avere competizione potrebbe pesare nelle scelte di concorrenti, mentre di questa volontà non c’è traccia.

Per i servizi ferroviari regionali purtroppo le regioni italiane si sono cautelate contro il rischio di gare (cioè contro l’interesse pubblico) stipulando con Trenitalia o con imprese ferroviarie locali, (o con se stesse, paradossalmente, cfr. le FNM lombarde), affidamenti pluriennali senza gare di sorta. Ora sembra difficilissimo, anche politicamente, ottenere la rescissione di tali irragionevoli contratti. Non rimane che osservare il meccanismo con cui in Germania si è avviata con un brillante successo l’apertura del mercato: i servizi dell’incumbent Deutsche Bahn erano troppo onerosi per le casse regionali, che furono così incentivate a rivolgersi a terzi, con beneficio rilevante per le casse regionali e nessun danno agli utenti. Per questi servizi In Italia le risorse sono comunque garantite, e ovviamente questo annulla ogni incentivo ad innovare i dispositivi regolatori esistenti.