18 aprile 2023
di Marco Ponti
Domanda solo apparentemente stupida: non è affatto come chiedere quanti sono i sette nani o di che colore è un cavallo bianco. FSI è stata trasformata in SpA anche se al 100% pubblica per renderla efficiente, perché alla fine del secolo scorso i suoi deficit (oltre 10 miliardi di all’anno) pesavano troppo sui conti pubblici, e una SpA per normativa è chiamata a fare profitti.
E’ fallita totalmente l’operazione sui deficit (sono rimasti sostanzialmente invariati), anche se la SpA dichiara allegramente ogni anno profitti, che non hanno nessun senso economico, se non quello di occultare i risultati economici veri dell’azienda, dei quali moltissimi anche nei media sembrano non essere a conoscenza, e riportano indici di redditività privatistici (EBIT, EBTDA..) come fossero cifre del tutto analoghe a quelle valide per un’impresa privata. Meglio che di quei 10 miliardi annui si parli il meno possibile.
Ma il padrone Stato sarebbe libero di togliere quei trasferimenti? Toglierli del tutto certo che no, la SpA fallirebbe in pochi mesi, ma nemmeno in parte.
L’ente ha raggiunto dimensioni tali e un tale potere economico che di fatto ha, come dicono gli economisti, “catturato il regolatore”. Dipendenti e fornitori costituiscono un blocco di potere, e di voti di scambio, che ha cambiato la natura della SpA, che è diventata solo luogo di “scambio politico” per ottenere obiettivi che con l’efficienza produttiva o la socialità hanno ormai pochissimo a che fare.
E’ un “instrumentum regni” per realizzare investimenti di scarsa utilità (si pensi a quelli del PNRR, che ormai pochi difendono) ma di grande impatto mediatico e con volumi di spesa imponenti.
Chiarito il contesto, FSI dichiara (intervista del responsabile Settori Urbani, dott. Lebruto, 11 ottobre 2022) che si appresta a generare nel prossimo decennio forti investimenti su suoi beni non essenziali per le attività ferroviarie. Non è che il messaggio sia chiarissimo, perché poi si riparla di trasporti e logistica, ma sul peso relativo delle operazioni di rigenerazione urbana non sembrano esserci dubbi. Sembra che l’ordine di grandezza sia di alcune decine di miliardi.
Essendo una attività dichiaratamente “profit”, possiamo assumere che generi profitti annui reali (al netto dell’inflazione) propri del settore immobiliare, di alcuni miliardi annui. Che destinazione si configura per un cashflow di questo tipo, se mancassero indicazioni precise del padrone Stato, come sembrano mancare?
Questa grande capacità di spesa, dichiaratamente all’infuori delle necessita tecniche del servizio ferroviario, crea verso gli indebitati comuni uno squilibrio di potere enorme: finisce che anche molti aspetti della loro crescita urbana dipendano da un soggetto esterno, molto debolmente controllato dallo Stato centrale, Stato che comunque non può avere competenze urbanistiche “localizzate”.
Il controllo e parte delle rendite di quelle aree dovrebbe essere restituito ai comuni di pertinenza. Un’altra parte dovrebbe andare a ridurre il peso delle ferrovie per gli ignari contribuenti (non dimentichiamo che i trasferimenti alle ferrovie corrispondono nell’ultimo trentennio a circa il 20% del debito pubblico, cfr ”L’ultimo treno” di M. Ponti e F. Ramella, ed. PaperFIRST).
Comunque questa enorme quantità di aree ormai semicentrali dovrebbero poi essere messe in gara per selezionare in modo più concorrenziale possibile i progetti migliori, certo dal punto di vista urbanistico; ma anche in termini di redditività.
Non sempre i due concetti sono antitetici, valorizzare un bene che appartiene alla mano pubblica può generare risorse per gli scassati bilanci comunali, oltre che come si è detto per diminuire l’onere per i contribuenti.
Nel merito poi, costruire vicino alle ferrovie è un modo importante per aumentarne l’utilizzazione senza costi aggiuntivi. Non dimentichiamo che la tratta più carica dell’alta velocità, la Milano-Roma, raggiunge a mala pena il 50% della capacità, per cui generare domanda ferroviaria aggiuntiva è operazione virtuosa.
Questo, anche con densità elevate, che notoriamente collaborano a diminuire la rendita urbana, che, nonostante alcune distorsioni finanziarie proprie del settore, è sempre favorita dalla scarsità del bene venduto, come tutte le rendite.
Ma, infine, occorre ricordare che in assenza di indicazioni chiare, trasparenti e controllabili, da parte dello Stato sulla destinazione dei profitti di quei miliardi “delle ferrovie”, la tendenza inevitabile di qualsiasi soggetto economico pubblico in condizioni di monopolio è quella di destinare risorse aggiuntiva all’aumento dei costi, aumento per il quale premeranno energicamente fornitori ed addetti, e non certo alla loro diminuzione.
E’ certo anche che con un governo ultra-conservatore come l’attuale, sarà molto difficile vedere azioni riformatrici coraggiose come le due che abbiamo suggerito: restituzione ai comuni del beni e delle scelte di piano, e ai contribuenti di una parte dei sussidi al sistema ferroviario, di cui abbiamo visto l’incredibile onerosità.