10 marzo 2022
di Marco Ponti
L’anniversario di “mani pulite”, che scosse una parte dell’opinione pubblica italiana (quella onesta) trent’anni fa, trova la situazione del paese apparentemente ancora messa male. “Transparency International”, l’organismo più citato in materia, registra solo la percezione del fenomeno, quindi al massimo è un indizio. E il fenomeno è difficilissimo da scoprire, lo sa chi ha lavorato fuori d’Italia: i conti “estero su estero” sono praticamente insondabili, anche perché le banche sono restie a danneggiare i propri clienti. Esistono anche stime quantitative di oltre 100MD€, anche queste prive di basi solide. Ma molti indizi si dice valgano una prova.
Si possono trovare motivazioni tutte italiane al concetto di denari pubblici non visti come appartenenti a qualcuno, ma “piovuti dal cielo”, connesse con la scarsa nostra coscienza sociale.
Il motivo oggettivo che rende questo reato difficilissimo da perseguire è che avviene tra soggetti consenzienti, il corrotto e il corruttore, al contrario dei furti “normali”. Qui il derubato, cioè il contribuente, non solo normalmente non sa nulla di specifico, ma non è nemmeno in grado di difendersi.
Venendo ai problemi pratici, quello di gran lunga più rilevante è l’arbitrio, sia dei politici che dei funzionari pubblici. Tanto più una decisione che benefici qualcuno dipende da scelte individuali, e non da regole consolidate e poco modificabili, tanto maggiore sarà la tentazione di chiedere/offrire qualcosa in cambio. Da qui i costi del sempre invocato “primato della politica” rispetto a regole prefissate. Più queste sono stabili e rigide, minore sarà lo spazio della corruzione (o delle spese inutili per obiettivi di consenso, fenomeno spesso imparentato alla corruzione).
Un secondo aspetto fondamentale riguarda la concorrenza negli appalti e nelle forniture: più il contesto è concorrenziale, meno spazio vi sarà per la corruzione. Questo per due solidi motivi: con la concorrenza emerge un secondo controllore, oltre la Guardia di Finanza o altri soggetti preposti per legge ai controlli. Sono i concorrenti che perdono l’appalto, pronti a denunciare e a fare ricorso in caso di affidamenti che ritengono basati sulla corruzione. Certo occorre limitare gli eccessi, frequenti in Italia e non solo, di azioni giuridiche “temerarie”, cioè fatte al solo fine di danneggiare il vincitore. Ma l’occhio vigile di questo “secondo poliziotto” è comunque utile.
Il secondo motivo dell’utilità della concorrenza è che per vincere occorre offrire costi più bassi dei concorrenti a parità di prodotto, e questo rende più esigui i margini per pagamenti occulti. È un quadro semplificato, ma il principio sembra solido, anche perché lo è la controprova: la scarsa concorrenza consente profitti più elevati, e quindi più risorse destinabili a fini illeciti (che non sempre sono un pagamento diretto, come vedremo).
E quanto sia rilevante la concorrenza emerge anche dalla regolazione indipendente antimonopolio (l’antitrust), nata negli USA nel 1890 con lo Sherman Act. Il problema era certo economico, ma una motivazione rilevantissima era anche l’eccessiva capacità dei monopolisti di “influenzare la politica” (più esplicitamente: di comprarsi i politici a tutti i livelli).
Per i trasporti, nei due settori che forse più soffrono del fenomeno, gli appalti di opere pubbliche e le gare per le concessioni di servizi (che dovrebbero avvenire sia per i trasporti locali che per le autostrade che per i servizi ferroviari che godano di sussidi), le cose da fare sono relativamente semplici. Per gli appalti, occorre che i bandi siano più dettagliati possibile, e meno modificabili ex-post con il meccanismo di “revisione prezzi”, in modo da avvicinarsi per quanto possibile a bandi “al massimo ribasso”, in cui quel solo parametro, non discrezionale, sia in gioco. Postula una maggior capacità progettuale da parte delle amministrazioni competenti, forse un obiettivo ottenibile con il PNRR, che anche di appalti sarà chiamato a breve ad occuparsi. Certo che per la concorrenza qui la strada è ancora lunga: ci sono state nei giorni scorse richieste politiche esplicite che i bandi favoriscano le “imprese di prossimità territoriale”, cioè quelle degli amici dei politici, contro il micidiale rischio di stranieri più efficienti.
Per le concessioni dei servizi, occorrerebbe anche qui pagare il modesto prezzo costituito dal rendere i bandi di gara meno flessibili che si possa, in modo che si eviti che dietro la flessibilità si nascondano a ogni cambio di colore politico delle amministrazioni, favori a diversi gruppi di amici degli eletti. Ma occorrerebbe anche pagare un prezzo in termini di durata delle concessioni: concessioni più lunghe consentirebbero forse al concessionario di dispiegare meglio strategie industriali e gestionali, ma al prezzo di elevati rischi di “cattura del regolatore”, termine con molte dimensioni, (comprende anche comportamenti illegali) ma riassumibili nel concetto che lunghe collaborazioni creano solide amicizie, mentre la logica vuole che la difesa degli utenti debba essere dominante, anche quando possa dispiacere molto ai concessionari.
Inoltre, occorre ricordare che una serie di servizi di trasporto, anche locali, potrebbero essere operati in condizioni di libero mercato, riducendo per questa via la dipendenza stretta da decisioni pubbliche.
Per concludere, ci sono molte cose che si possono fare ex-ante per rendere il contesto meno permeabile alla corruzione (ridurre la discrezionalità e aumentare la concorrenza nelle forniture e negli appalti).
Purtroppo, agendo in questa direzione, i decisori politici perderebbero rilevanti spazi di consenso, che discendono proprio da un lato dalla discrezionalità delle loro scelte, dall’altro dal fatto di poter favorire soggetti economici, anche pubblici, al di fuori delle regole della concorrenza.