12 febbraio 2020

di Marco Ponti e Francesco Ramella

Secondo il Presidente Assoutenti, Massimo Ferrari, non ci sono più dubbi. L’alta velocità (quasi interamente a carico dei contribuenti) è volano della crescita. Chi vive non lontano da una stazione sulla rete prospera e chi è lontano ristagna quando non indietreggia. Ma è davvero così? A guardare con attenzione i dati della ricchezza prodotta su base provinciale non parrebbe affatto. Ci sono province, come quella di Napoli, il cui capoluogo ha beneficiato di una doppia cura del ferro, quella sulla lunga percorrenza abbinata a quella urbana con un investimento senza precedenti nella rete di metropolitana e di ferrovie urbane e che, nell’ultimo decennio non solo non hanno visto crescere il reddito ma si sono impoverite. E ve ne sono altre, come Bolzano il cui capoluogo dista 250 km dalla più vicina stazione AV e il cui PIL è cresciuto più che in ogni altra località, quasi il doppio rispetto a Milano e sei volte tanto quello di Roma. Torino che pur aveva puntato moltissime speranze sul collegamento AV con Milano tra il 2008 ed il 2015 ha visto crescere il PIL di un misero 1,6%, un terzo rispetto al valore fatto registrare delle Province di Asti e Novara, e addirittura al di sotto della Provincia di Cuneo dove è ricorrente il mantra della marginalità geografica. No, non è l’AV che fa crescere. Non vi è alcuna solida evidenza che le infrastrutture siano un “volano per l’economia”. Tanto meno lo possono essere le ferrovie. Tale realtà non dovrebbe stupire più di tanto se si guarda al bacino di influenza del trasporto su ferro veloce. Non vi è dubbio che, anche grazie anche all’apertura al mercato, questo segmento dell’offerta di trasporto abbia avuto una crescita rapidissima, ma non dovremmo dimenticare che esso soddisfa una piccola nicchia della mobilità. Si tratta di poco più di 150.000 viaggi al giorno. Su 1.000 italiani ve ne sono meno di 2 che salgono su un Frecciarossa o Italo. Per quanto possa essere cresciuta la produttività di queste persone che prima si spostavano in aereo o in auto o che non effettuavano il viaggio, è davvero difficile pensare che questo effetto possa avere dei riflessi macroscopici sul PIL nazionale. E sono una piccola minoranza anche coloro che utilizzano i servizi ferroviari locali: Repubblica, due giorni fa, titolava così un articolo nel quale si dava conto del Rapporto annuale di Legambiente, “Pendolaria”: “sempre più italiani in treno: cinque milioni e mezzo lo usano ogni giorno”. Un vero e proprio fake number. Il dato corretto, consultabile con un click sul sito dell’ISTAT, è di poco superiore al milione. Un italiano su sessanta, dunque. In Lombardia, la Regione che dispone probabilmente della migliore offerta di trasporto, sono solo cinque su cento gli spostamenti sui binari. Dobbiamo dunque concludere che le infrastrutture non abbiano alcun impatto positivo sulle prospettive di sviluppo di un territorio? Certamente no, ma appare evidente che una miglior dotazione infrastrutturale non sia un elemento determinante. Occorrere quindi valutare con attenzione i singoli progetti per comprendere se il costo da sopportare è giustificato o meno e non buttare il cuore o, meglio, il portafoglio del contribuente oltre l’ostacolo prospettando inverosimili miracoli economici. Sono dunque necessarie serie analisi costi-benefici. Massimo Ferrari gioisce perché i teorici di questa metodologia sono stati “sconfitti in sede parlamentare da un vasto fronte politico” come se i rappresentanti dei cittadini adottassero sempre saggie decisioni nell’interesse della collettività. Come se la pesante zavorra del debito pubblico che grava come un macigno sulle prospettive di crescita dell’Italia non fosse anche la conseguenza di mezzo secolo di spesa facile. Spesa di cui si sono enfatizzati i benefici e tenuti ben nascosti i costi. Gioierebbe Ferrari se domani in Parlamento avessero una maggioranza quelli che predicano l’uscita dall’Euro? (a parte che le spese facili alla lunga possono contribuire molto a questo esito…) Se un’accusa si può fare all’ ACB è quella di essere semmai troppo accondiscendente, in un contesto debitorio come il nostro. Considerato che una parte significativa delle ricadute positive di cui si tiene conto in questo tipo di valutazioni non hanno impatti di rilievo sulla produttività (tutti i viaggi non di lavoro, per esempio), si può ritenere che ben difficilmente un progetto che non superi questo esame possa contribuire positivamente all’aumento del reddito prodotto. E, al contrario di quanto sembra suggerire Ferrari, questa metodologia non porta in ogni caso a risultati negativi come insegna la stessa esperienza delle analisi condotte lo scorso anno dal Ministero delle Infrastrutture. Le due valutazioni che riguardavano ambiti urbani, la Gronda di Genova e il sottoattraversamento ferroviario di Firenze, hanno dato esito positivo. Laddove si possono ridurre significativamente i costi del trasporto, investire è opportuno. È una lezione semplice, di buon senso ma che evidentemente non ha alcun impatto su chi è animato dal sacro fuoco ferroviario e, concentrato anche istituzionalmente a difendere gli interessi degli utenti, non tiene nella minima considerazione quello dei contribuenti.

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